Quello che le suore non dicono

«Quello che le suore non dicono» la poesia di Silvia Alonso finalista al Premio Bukowski 2021 e pubblicata dalla c.e. da Giovane Holden nell’omonima raccolta AA.VV.

E per i miei lettori, anche il racconto «Diario erotico di un’eretica» gemellato alla poesia premiata.

DIARIO EROTICO DI UN’ERETICA

Erano anni che invocavo Eros per un sogno impossibile, quello che ogni donna desidera del profondo del cuore: trovare il grande amore, con la Om maiuscola. Cioè il mantra cosmico che muove il sole e le altre stelle. Ma anche, più semplicemente, il rombo acustico che dal profondo delle viscere fa rabbrividire la pelle. Senza le collaterali rotture, s’intende, di qualsiasi vita di coppia, mutande e calzini da rammendare, o le ricorrenti flatulenze degne del peggior animale.

Ma lui sembrava non voler sentire e, a parte qualche decoroso avanzo di galera, a letto particolarmente focoso, con gli uomini normali l’argomento si è rivelato quasi sempre deludente, e oltretutto frettoloso. Tutto il resto era assolutamente noia. Storie di ordinaria routine, piccolo-borghese e senza gioia.

Limousine, ristoranti stellati, champagne cuvée e frequenti soirée nei teatri, ma sotto alle lenzuola il nulla più desolante. Un deserto sconfinato dei tartari, un’inutile attesa del niente.

A un certo punto ho pure provato ad abbassare le aspettative. Ho sceso, dando il braccio all’amore di turno, almeno un milione di gradini sulla scala sociale. Fino a quando ci ho proprio sbattuto il naso.

Dopo una sfilza di laureati, ecco arrivare i migliori tra i reputati in fatto di arte amatoria, uomini cosiddetti di fatica che, malgrado l’appellativo, a letto disdegnavano il loro compito come i vampiri con l’aglio, e senza dunque averci fatto troppi giri, rieccomi tentare la ri-monta verso il round finale di un potenziale equilibrio. Il risaputo ideale dell’impiegato, colui che la sua vita ha consacrato sull’altare di una scrivania uso ufficio. Ma forse, proprio per dispetto al suo nome, una volta trascinato a letto, anche l’esemplare più tipico della predetta categoria non faceva neanche una piega. Come se la fantasia amorosa scivolasse silenziosamente via dalle lenzuola per il timore di essere a sua volta imprigionata dalla cattiva piega che avrebbe potuto prendere una vita a tal punto ripetitiva.

Come potevo dunque realizzare il mio personale karma?

Incontrare Eros era il mio destino, ma lui si ostinava a sfuggirmi.

Poi un giorno capii, ed era pure elementare. Bastava un po’ di semplice mitologia per sciogliere i nodi che sino allora avevano tardato a venire al mio pettine. E sì che non mi mancava la giusta chioma da Valchiria, indomita e selvaggia come l’amazzone che mi scalpitava dentro.

Se aveva ragione Platone, e dunque la colpa era delle sue origini povere di cui si vergognava, Eros avrebbe cercato contesti attraenti, disdegnando vite domestiche, lavori routinari e stipendi quasi da indigenti. Lui aveva la necessità di volare, perciò per conquistarlo avrei dovuto puntare molto in alto, direttamente sino alle stelle.

Sposando un uomo spropositatamente ricco, il mio Adone si sarebbe magicamente rivelato facendosi vivo da solo, bussando un bel giorno alla mia porta con nonchalance, come un bambino alla ricerca di un aquilone.

E così, infatti, è accaduto.

L’ho conosciuto ad una festa elegante, come dicevo, e pur recitando la parte della gran signora, a tratti sfuggente e altezzosa, ho subito capito che si trattava del migliore dei Casanova. Giovane e aitante, atletico e irriverente, si muoveva a suo agio tra i candelabri dei tavoli e le misteriose maschere della gente, incantando le dame col suo potere seducente. Soltanto molto tempo dopo ho scoperto che era un modello di professione che per l’arte del sesso aveva molto più che un’innata vocazione.

Il suo sguardo penetrante mi ha subito scatenato l’impossibile desiderio di un amore cocente, talmente pieno di passione da smuovere anche le vette più inaccessibili delle mie altissime montagne, che allora tenevo ben strette nel corsetto, tra pizzi e rasi, scosse da un brivido lungo la schiena. Mi sfiorò delicatamente la catena d’oro bianco e perle, ma non finì nel solito dopo cena. Si limitò a porgermi il suo miglior biglietto da visita, lasciando a me la decisione: se morire di fantasie impossibili corrosa dalla pura immaginazione, oppure abbandonarmi al prosaico reality di un’avventura amorosa, lasciandomi prendere da una sfrenata passione. Non ebbi nessuna esitazione.

Ma essendo lui un bellissimo Adone, di me senz’altro più giovane e forse gigolò praticante, il sospetto in proposito si stava insinuando nella mia limitata esperienza. Stupirlo doveva diventare la mia unica missione, legarlo a me, sebbene dissuasa da un angolo remoto di coscienza.

Dovevo conquistarlo lentamente, suonando con dedizione lieve e costante quel flauto magico rinchiuso nella cesta della sua mente, che alla fine avrebbe incantato non solo il più restio tra gli uomini, ma anche il più refrattario, maestoso serpente. Non che il suo ne avesse bisogno, ovviamente.

Un solo avvertimento, prima di iniziare i nostri giochi. Sapevo che sarei dovuta restare molto attenta. Il monito della favola di tutti i tempi raccomandava a noi fanciulle non più ingenue di rinchiudere l’uccello d’oro in una gabbia di legno. Sulle prime, l’interpretazione era sibillina. Tale appellativo non poteva attribuirsi a un paragone poco lusinghiero nei confronti della mia a-dorata vagina. Ma alla fine capii che la parabola sottendeva una nascosta, sottile allegoria: dovevo conquistarlo in sordina, con una seduzione apparentemente innocua, ma circolare e continua, fatta di carezze a spirale, musica e profumi a profusione. Per dargli l’illusione di essere finito in un harem, una specie di paradiso di cui era l’unico dio, il temuto e venerato sovrano.

Narrazioni esotiche, aromi d’incenso e cannella, massaggi di seta, poesie oniriche, pioggia di petali a catinella. Protagonisti di un paradiso erotico, ogni volta mutavamo forma, attori unici del teatro sincronico della nostra immaginazione.

Nel nostro Eden segreto io ero Cleopatra e lui Antonio, io la schiava e lui il pirata, lui il principe e io l’ancella. Ma era ancora troppo poco, volevo che la mia ipnosi fosse totalizzante e resa ancora più mirabolante, per diventare ai suoi occhi più bella trattenendolo a me, seppur nel fuggevole attimo del presente.

Pensai allora di convincerlo che era Shiva: divinamente muscoloso com’era, la mia dea interiore Shakty ne avrebbe gioito, amandolo per sempre in quel tratto che rifuggiva dal mondo.

Ma dopo appena un mese di recite a soggetto, scoprii che quel gioco era solo la replica di un copione già visto: il kamasutra vedico lo avevamo ormai esaurito, e a quel punto non ci restava che provare con le divinità dell’antico Egitto. La mia ninfa ninfomane necessitava di nuova linfa, o l’ispirazione ne avrebbe languito.

Ci voleva una nuova perversione. Un’immagine simile a una visione, che potesse rinnovare un vecchio repertorio con nuovo vigore. “Ritornare alla radice”, mi sono detta, e più non facciamo questione.

Una monaca di clausura sembrava la giusta soluzione, una figura allegorica che riportasse il mio corpo a risplendere nella più fulgente luce, magari nel mezzo di una dolce tortura. Sarei stata io, questa volta, la dominatrice. E da Sherazad che già aveva assaporato le mille e una botte, sarei ritornata totalmente pura, redenta e limpida come acqua cristallina.

Avrei avuto carta bianca per dargliele deliziosamente di santa ragione, se solo lo avessi ammanettato a dovere, con una nuova gamma di fustigazioni. Più di cinquecento sfumature, tra quelle da catalogo e improvvisazioni.

La castità doveva diventare la nuova frontiera, in nome di una nuova religione. Sesso esclusivamente immaginario, telepatia e dominazione. Nessun amplesso dei corpi, ma solo un’eterna, infinita erezione. Vietata ogni eruzione.

Detto fatto, eccomi alle prese con le mie prime armi.

Sembro una Mistress con tutti i crismi. La frusta ruota lieve attorno al suo corpo in un’infinita danza, disegnando mandala aerei prima di approdare ad infliggergli la suprema fustigazione, l’estrema acrobazia della mia nuova, inebriante eresia.

Geme. Fremo. È vera sublimazione. Puro distillato di un sesso tangibile, ma al contempo evanescente, come se dai nostri corpi fosse di colpo evaporata, per liberarsi infine polverizzata, una nube densa di profumo e sudore, dispersa nell’etere di un cosmico stupore.

Lo vedo all’apice dello stordimento, assaporandone il liquido mai versato, per fecondare ogni mia più remota fantasia. È dunque giunto il momento di esigere un’ultima prova: la mia brama di supremazia richiede la suprema resa.

Decido di approfittare di quest’attimo di perfezione, il Kairos degli dei, se così si può dire, per porgergli un’ultima domanda. Senza via di fuga, come fosse un condannato al giudizio finale, la risposta non prevede alcuna esitazione.

Vacilla per un attimo, titubante. Mi attendevo qualcosa di inedito, la proposta di un’esibizione sinfonica, un esuberante quartetto da camera, o anche solo un trio di cui sarei stata regina.

Ma così non pare. Resto muta, avvertendo che si sente sulla soglia di un bivio. Sussurra infine esile, con un sottile fil di voce:

“Vorrei con me Livio, per il supplizio della croce”.

Sento il cuore spezzarsi in petto. Decisamente no: quest’ultimo colpo non l’ho retto.

Posso solo scappare da questo castello di sabbia che mi è franato addosso di colpo, a tradimento. Mi rivesto in tutta fretta, col desiderio di lasciarmi alle spalle il fardello di questo lacerante tormento.

Ma non faccio in tempo a fuggire dal mio peggiore incubo che l’oste mi presenta il conto dell’ultima cena, e quello di tutti i precedenti bagordi.

Cattivi tempi per noi ingordi: ahimè è molto salato. Mi domando come diavolo ho potuto.

Questa sensazione di amaro in bocca mi resterà impressa per anni, come un marchio di fuoco, segnandomi, oltre all’anima, anche il corpo. Troppo cocente, la delusione.

Potrei sempre dire che, per certi versi, mi ha fatto sentire come Nietzsche sul punto della sua più solenne dichiarazione, ma a quale prezzo?

Se Dio è morto, non credo risorgerà mai più. Non di certo per il mio stupido, carnale vezzo, men che meno per un’ultima deflorazione.


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