L’interrogatorio a Maddalena Santacroce, protagonista del giallo dell’estate

L’incipit de « L’Angelo veste Sado” – di Silvia Alonso» il giallo più trasgressivo e conturbante dell’estate

Durante una sessione di Bondage, nelle segrete di una Milano notturna dove regnano incontrastate le Mistress, uno slave viene trovato morto. Scatta l’indagine del Commissario Bellavista che interroga Maddalena Santacroce, ballerina di pole dance e migliore amica della principale sospettata, la praticante Mistress Cristiana Carofiglio che risulta latitante.

Un interrogatorio mozzafiato, dove la protagonista cercherà di irretire il suo detrattore…

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Mi piacerebbe tanto poter dire di avere avuto un comportamento degno. Magari non proprio da Nobel per la Pace, ma almeno avvicinarmici. Vantarmi di essere stata una specie di Gandhi al femminile. Stesso contegno distaccato, stessa fredda determinazione nel resistere all’avversario con indifferenza sfiancante. Un esempio ineguagliabile in fatto di resistenza passiva alla polizia. Una specie di eroina epica, degna di essere, anche solo per un momento, la protagonista di qualche canzone nostrana, come quelle della vecchia Milano che parlano di malavita, ricordando che gli anni di piombo non finiscono mai e a volte hanno pure il coraggio di ripresentarsi. Avrei voluto dare saggio della mia assoluta incorruttibilità, senza nulla concedere a quell’interrogatorio neanche sotto tortura: nessuna parola sarebbe sfuggita dalle mie labbra orizzontali. E per quello che invece riguardava le verticali, avrebbero dovuto restarsene chiuse come la più ermetica delle casseforti. Ma non è andata così. Perché una volta trovatami davanti al commissario, ero consapevole di avere una sola arma vincente, e così ho pensato bene di giocarmela fino all’ultimo sul filo del rasoio.

 Cioè: proprio quello che avevo appena usato per quel delicato punto cruciale, sbandierandogli l’aroma di quanto nascondevo, neanche poi così timidamente, tra i segreti pizzi del mio perizoma.

L’impresa di ammansirlo, in realtà, è stata piuttosto banale e per nulla originale, come invece avrei voluto. Io che ho sempre sognato un uomo all’altezza della situazione, qualcuno “col senso della frase”, per intenderci. E invece, purtroppo, mi è toccato uno che non aveva nemmeno il senso di come condurre un banale interrogatorio.

Quella mattina mi avevano improvvisamente convocato in commissariato, per una cosiddetta “improrogabile questione di urgenza”. E già l’esordio non era stato dei più brillanti. Non lasciando alcun margine di dubbio sullo spirito del mio interlocutore.

«Signorina… Maddalena Santacroce? Un nome alquanto insolito. Viene da una famiglia di religiosi o i suoi si sono semplicemente accaniti nei suoi confronti?»

Con un tale benvenuto, mi sono subito cadute le braccia.

«Ma lo sa che ha proprio il senso dell’humor? Nulla di tutto ciò, ma, se la cosa la può confortare, sono la cugina prediletta di Elia Santacroce. Non so se ne ha mai sentito parlare: non avremo santi in paradiso, ma una certa familiarità col sacro, in compenso sì.»

«Mmh, in effetti il nome non mi è nuovo. Proprio una famiglia strana la vostra, direi!»

Ecco confermato ogni mio sospetto. Come si poteva fare il commissario a Milano e non conoscere per filo e per segno le gesta di mio cugino Elia? Avrei dovuto diffidare.

«Comunque, dicevamo. Signorina Maddalena…»

«Maggie, per le amiche.»

«Ok, facciamo pure Meg, anche se non sono una sua amica. Dunque, dal materiale che abbiamo raccolto sulla signora Cristiana Carofiglio, risulta che lei ne sia la migliore amica. Conferma?» Quel tono ironico in riferimento alla mia amica non mi era piaciuto affatto.


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«Credo di sì.»

«Come sarebbe a dire, credo?»

Era più forte di me. La pelata col riporto, i baffetti e la pancetta gli davano un’aria da macchietta dei filmetti anni Settanta. Non mi sentivo per nulla intimorita, e così mi sono presa alcune licenze.

«Perché in questa vita ho solo dubbi e nessuna certezza, soprattutto da quando mi sono imbattuta in Schopenhauer e nella sua teoria del cosiddetto velo di Maya. Ha presente?»

Per un attimo l’ho visto vacillare nel vuoto, come se fosse stato alla ricerca del primo salvagente disponibile sul pianeta Marte. Ma dopo aver incassato il colpo, si è ripreso speranzoso.

«Non vedo cosa possa c’entrare l’Ape Maya con la nostra questione. Veda di finirla con lo spirito e cerchi di rispondere alla mia domanda: la signorina Carofiglio è o non è la sua migliore amica?» Appurata l’ignoranza abissale e senza speranza, ho deciso di divertirmi ancora un po’.

«Trattasi di un dubbio amletico. Se infatti l’amicizia è la forma più alta di amore e l’amore in sé non è che un’illusione, allora non ne sarei così certa.»

«Senta un po’, forse la cosa non le è chiara. Qui non c’è nessun problema, se si esclude che lei, in prima persona, rischierà di avere parecchi problemi con la giustizia se si ostina a non collaborare facendo la spiritosa. È necessario che le spieghi meglio che non solo la sua amica, ma anche lei è seriamente nei guai? C’è stato un omicidio. Ci è scappato il morto. La principale indiziata è proprio la Carofiglio. Quindi: o ci racconta tutto quello che è a sua conoscenza, o saranno lacrime amare anche per lei.»

Okay. Al suono della parola omicidio mi era decisamente passata la voglia di scherzare. Cosa diavolo aveva detto? Cristiana era nei guai? Io sospettata di essere una sua possibile complice? Il mondo mi era franato addosso senza che me ne accorgessi, e ora mi sarebbe toccato scavare per riemergere dal fondo di quelle macerie, ma ero troppo impietrita dalla notizia per riuscire a muovere anche solo un muscolo, figuriamoci replicare in maniera brillante. S’imponeva una breve pausa di riflessione, dovevo prendere tempo e possibilmente trascinarlo in campo neutro, se non proprio su un terreno comune.

«Potrei fumarmi una sigaretta?» ho avuto l’idea di rilanciare.

Era da un po’ che avevo adocchiato il posacenere sulla scrivania. Sembrava una preziosa reliquia di tempi insospettabili, ma ci avrei giurato che ogni tanto anche lui qualche strappo alla regola se lo concedeva. Poteva dunque essere un buon appiglio, forse l’unico dettaglio che ci accomunava. E poi, si sa: non si nega mai l’ultimo desiderio a un condannato.

Pareva avesse funzionato, perché dopo il primo tiro abusivo, fuori dalla finestra del bagno accanto, il mio cervello in stand-by era riuscito a riavviarsi e, in compenso, al mio ritorno le nostre divergenze sembravano placate. Almeno per poco.

«Vedo che ora sembra disposta a scendere a più miti consigli. Bene. Mi dica allora: ha un qualche titolo di studio?»

«Certamente. Una laurea in lettere e filosofia: più in lettere che in filosofia, direi. E part-time sto anche facendo la triennale in lingue straniere, in attesa del concorso per la cattedra, non si sa mai.»

«Dunque, vive facendo la supplente, presumo» disse guardandomi con aria contrariata, come se fossi uno strano esemplare di raro animale da tenere in stretta osservazione. Forse, il fatto che mi stessi plurilaureando, incontrava il suo esplicito dissenso. Ma potevo sorprenderlo anche sul punto.

«Più o meno. Più che altro supplisco alla precarietà dell’insegnamento arrangiandomi con altri lavoretti.»

«Capisco. Baby-sitter, ripetizioni e cose del genere?» disse con tono annoiato.

«Non proprio, e soprattutto dipende dai giorni. Ad esempio, il martedì, il mercoledì e la domenica sera lavoro in Brera. Mi sono aggiudicata il tavolino proprio davanti allo storico ristorante Orient Express, lo conosce?»

«È ovvio, ma lasci fare a me le domande. Si attenga al mio interrogatorio e non cerchi di prendere altre scorciatoie. Diceva?»

«Allora diciamo che in quei giorni esercito la professione di psicologa esoterica.»

Ne ho subito colto la soddisfazione stampata sul volto. Ecco la magagna che cercava: finalmente i conti gli tornavano.

«Adesso capisco. Gioca a fare la zingara con tutti gli altri sfaccendati di strada. Una scusa in più per evadere le tasse, suppongo.»

«No, guardi. Io leggo i Tarocchi, non sono una banale cartomante da strapazzo: niente fatture né cialtronerie. Si tratta di una sapienza antica, che risale agli Egizi e ha persino riferimenti alla Cabala ebraica. Do dei consigli filosofici sul presente, non divinazioni sul futuro. In pratica, si può dire che faccio counseling psicologico.»

«Dicono tutti così. Paroloni difficili che non vogliono dire un bel niente!»

«Le potrei invece dimostrare che la mia attività è a tutti gli effetti equiparabile a quella dello psicologo door to door, figura molto in voga in Inghilterra. Una sorta di maître à penser del prêt-à-porter psicologico. Solo che io l’ho adattato ai gusti milanesi, minimalisti per eccellenza. Ho una piccola clientela molto affezionata. E ci pago persino le tasse, che le ci creda o no.»

«Va bene, va bene, verificheremo poi con calma. E negli altri giorni?»

«Il lunedì riposo. Mentre il giovedì, il venerdì e il sabato sera lavoro al Mystique. O meglio, ho iniziato da un mese. Si può dire che sono ancora in prova.»

«Quello di Piazza Diaz?»

Mi ha guardato allarmato. Come se avessi detto qualcosa di sbagliato. O, al contrario, di molto interessante. Suppongo che conoscesse quel locale molto bene. E non di certo perché fosse reputato per gli incontri mistici.

«Proprio lui» ho replicato fiduciosa.

«Come cameriera o come barista?»

A quel punto sembrava improvvisamente trasformatosi in un cacciatore in cerca di prede, e la sua domanda incalzante non mi lasciava alcun margine di scampo. Qualcosa mi diceva che stavo camminando su un terreno minato, ma non riuscivo a capirne la ragione. Fino al momento in cui mi è venuta la giusta intuizione. In effetti, la fisionomia del mio interlocutore non mi era del tutto nuova. Quel che di bavoso che lo caratterizzava, assieme a quel fare supponente, da voi non sapete chi sono io, ero sicura di averlo già visto da qualche parte. E soprattutto quel tanfo di sudore in cui mi stava disgustosamente avvolgendo, in qualche modo sembrava risultarmi familiare.

Il punto è che, in questo primo mese di prova al Mystique, avevo escogitato il modo di lavorare come ballerina di pole dance in incognita. Metti caso che, tra una contorsione sul palo e un’acrobazia con apertura alare, mi fossi ritrovata vis à vis con un genitore di qualche alunno o con un qualche preside in perlustrazione, ci avrei perso la faccia (il lato B magari no, ma quello è un altro discorso!). Fatto sta che, a scanso di equivoci e per tutelarmi, prendo sempre le mie precauzioni, usando l’igienica bustina monouso delle lenti a contatto colorate (blu fluo, sguardo da sirena allucinata, l’ideale per ipnotizzare chiunque). E, soprattutto, ho una meravigliosa, preziosissima collezione di parrucche, da fare invidia a Lady Gaga e persino a Platinette!

Ma pur lavorando in incognita, nulla mi sfugge. Ad esempio, il fatto che tra gli habitué del locale ci sia un tizio inconfondibile, che ha il vizio di mettere le mani addosso a tutte noi. Pure a quella grande stronza di Katiusha, una russa arrivista che meglio non parlarne. Lei sì che se lo meriterebbe un bel fastidio costante, simpatico come un tarlo, a farle abbassare le arie. Tipo: tu sei lì che ti guadagni onestamente la pagnotta facendo la lap dance al cliente, e tanto più fatturi quanti più drink lui si beve guardandoti. Ma sul più bello, stai pur certa che arriva Katiusha coi suoi tre chilometri di gambe, tette rifatte e labbra di gomma. Semplicemente bellissima, se il risultato è ciò che conta. Ebbene, mentre lei arriva, quel dannatissimo drink si rovescia, tu e il cliente perdete il contatto visivo, e lei te lo fotte da sotto il naso! Non so quale occulta arte riesca a sfoderare, ma di sicuro è una vera maga. Li ipnotizza talmente bene, che finisce che per non prendere fuoco si bevono l’intero locale. Sono numeri da vera illusionista, intendiamoci: anche col cliente più sfigato riesce a muovere la lingua come se si volesse leccare l’intero palo e le piacesse pure, con tanto di sbattimento di ciglia che sembra cadere in preda a visioni celestiali. Ma quello che mi fa più specie è che sul più bello, non si sa bene come, riesce sempre a svignarsela tagliando la corda (o meglio: lanciandosi dal palo direttamene nel vuoto e scomparendo nel nulla). E questa cosa le è riuscita, ricordo bene, anche col più appiccicoso dei clienti, da noi soprannominato: Il Bavoso.

Ho subito capito che doveva essere un tipo particolare, qualcuno per esempio intortato con la security, perché la sua assoluta immunità rispetto agli inflessibili dogmi del locale era troppo sospetta. Vige per tutti il divieto assoluto del palpeggiamento abusivo delle nostre preziose natiche (cosa solitamente vietata, a meno che prima il cliente sborsi un bel centone): l’infrazione è addirittura punita con l’allontanamento dal locale. Bene: i palpeggiamenti del Bavoso, oltre che gratis, sono a tutte noi noti per essere non solo molesti, ma persino compulsivi, e corredati di un particolare che li rende ancor più indimenticabili, cioè il tanfo del protagonista.

Coincidenza voleva che, proprio nel bel mezzo dell’interrogatorio, stessi scorgendo in tempo reale la stessa anomala goccia di puzzosissimo sudore. Quella furtiva lacrima che imperlava la fronte del commissario, pronta a scendere a sorpresa a impregnargli la camicia, mi ricordava lo stesso, sgradevole elisir di breve vita.

È bastato un attimo, e me lo sono proiettato nel chiasmo figurativo di baffetti e parrucchino in cui si trovava mascherato in quel momento: bastava togliere i baffetti posticci e aggiungergli il parrucchino, e il gioco era fatto. Il commissario e il bavoso corrispondevano perfettamente, come due gemelli siamesi separati alla nascita e riuniti dallo stesso deprecabile vizio.

Era dunque necessario mentirgli, mantenere l’anonimato e soprattutto garantire l’immunità delle mie natiche, oltre che delle mie papille olfattive.

«Insomma, signorina, vuole rispondere? Cosa fa di lavoro al Mystique, se non è un segreto di Stato?»

Dovevo trovare al più presto un espediente. Di certo non potevo dirgli la verità, col rischio di ritrovarmi accerchiata come una pecorella nella tana del lupo, in posizioni alquanto compromettenti. Avrebbe potuto approfittarne e ricattarmi a vita, e allora non me lo sarei più scrollato di dosso, lui e le sue mani morte.

«Sì, certo. Faccio la cameriera, ma da poco. Mi hanno appena assunta, sono in prova per servire i drink ai tavoli. Del resto non aspiravo a un ruolo di performer. Le ragazze che ballano sono tutte valchirie russe con cui non posso competere. E poi la pole dance, chi la sa fare? Io che ho sempre vissuto sui libri, sono un legno.»

Sembrava una scusa plausibile, per chi non mi conoscesse a fondo. Solitamente le tradizionali secchione fanno a pugni persino coi pali della luce, figuriamoci con le acrobazie di pole dance.

Colto dalla delusione di vedermi scivolare via dalle sue mire ricattatorie, il commissario ha perciò stretto la presa, accerchiandomi.

«Ah sì? Ma con quale motivazione una studentessa modello come lei sarebbe finita nei giri poco affidabili dei locali notturni? Non poteva servire ai tavoli in una normale osteria dei Navigli?»

«Beh, sui Navigli non ho trovato lavoro, al Mystique sì.»

«Mmh, non mi convince. Sono le stesse scuse che arrancano tutte. Ma viste le sue frequentazioni, non m’incantano. È al corrente della professione svolta dalla sua amica Carofiglio?»

«Sì, anche se non sono mai stata d’accordo.»

«Certo: scommetto che si è battuta per riportarla sula retta via… e allora dica: come qualificherebbe tale mestiere, di cosiddetta mistress?»

«Mah. Difficile da definire con esattezza. Forse potrei azzardare che è una bella rivincita delle donne sugli uomini? Per una volta siamo noi che meniamo, e veniamo pure pagate profumatamente. Dunque non che c’è niente di male, dal momento che parliamo di adulti consenzienti.»

«Ecco, vede? Si è tradita!»

«Perché, scusi?»

«Perché ha parlato al plurale. Questo denota con tutta evidenza una sua partecipazione, quanto meno psicologica, all’occupazione della sua amica.»

«Beh, si tratta appunto della mia migliore amica: è naturale che mi ci immedesimi.»

«Chi s’immedesima è anche un po’ complice, se lo tenga bene a mente! Dica: conosce con precisione le mansioni svolte dalla Carofiglio durante le sue, per così dire, esibizioni? Gliene ha mai parlato di persona?»

«Sommariamente. Più che altro sdrammatizzando, per il fatto che si facessero menare ricoprendola d’oro. Ma sa, de gustibus…»

«Ah! Dunque, era quella la sua pratica preferita?»

Era veramente un caso umano!

«Mi lasci pensare: a quanto ne so il linguaggio è spesso in latino, con tutta la terminologia tecnica. Ma ci sono dei codici segreti che i professionisti non amano svelare, e che io conosco solo vagamente. Cristiana si limitava a raccontarmi le cose più banali. Tipo che chiedono di farsi legare alla sedia, e poi si fanno frustare. O che alcuni amano infilarsi i tacchi a spillo e camminare inginocchiati per tutta la stanza. O anche il classico dell’infermiera col paziente, che chiamano clinique: insomma si divertono a farsi fare le iniezioni. Vallo a capire cosa ci trovino! La cosa più incredibile, anche per Cristiana, è che sono quasi tutti dei manager affermati. Ma secondo lei in fondo giocano: è il loro modo di sentirsi accuditi da qualcuno. Per una volta delegano il potere a un’altra persona, come se fosse un’insostenibile pesantezza dell’essere di cui è piacevole liberarsi.» Lo ammetto: il riferimento a Kundera potevo forse risparmiarmelo. Il poveretto era già vessato dell’immaginazione di certe scene che, nel tentativo di starmi dietro, stava di nuovo ricominciando a sudare freddo. E io avrei anche voluto andargli incontro, se non fosse che qualcosa mi spingeva a provocarlo, con ostinazione. Sono stata perciò costretta a troncare sul più bello della sua finta costernazione.

«Cosa dice? Ma quali banalità? Lo sa che siamo nella fattispecie delle percosse e lesioni personali? Andiamo nel penale!»

«Beh, non saprei. So solo che, a quanto mi consta, tutto avviene col consenso della vittima, non vedo allora il problema.»

«Sbagliato! Non si può acconsentire a certe cose, tenendo soprattutto conto che, come nel nostro caso, finiscono spesso per scivolare nell’omicidio. Preterintenzionale o doloso che sia, scelga pure lei.»

«Cosa significa? Cristiana non ha mai alzato il tiro con nessuno, la conosco troppo bene. Abbiamo avuto la stessa formazione noi, sin da quando frequentavamo le suore. Sappiamo benissimo che a tutto c’è un limite, e soprattutto cos’è la pietà. Sono sicura che sapesse perfettamente come controllarsi e fino a che punto arrivare.»

«Ah! E così avete persino avuto una formazione cattolica. Bene, bene… beh: non mi stupisce. Alcune di voi sono proprio le peggiori. O le migliori, dipende dai punti di vista.»

La cosa stava prendendo una brutta piega. Un’allusione di cattivo gusto, oltre che un luogo comune ormai abusato. A ogni modo, il tema poteva comunque essermi utile in un altro campo.

 «Cosa vuole, non è esattamente colpa nostra. Abbiamo una religione fondata sul mito della sofferenza, e quindi c’è chi sublima. Lei, essendo appunto Cristiana di nome e di fatto, esercitava la sua professione convinta che ci fosse un che di mistico. Qualcosa di intrinsecamente redentore, in cui vedeva una specie di missione. Insomma: pareva lo facesse cristianamente, se così si può dire.» Stavo liberamente improvvisando su un tema di cui sapevo poco o niente, ma di cui avevo forse intuito alcune chiavi di lettura. La verità è che, da quando praticava la sua nuova professione di Mistress, Cristiana era caduta in un silenzio quasi tombale, almeno con me. C’era come un’ombra che le era calata sul volto e che le velava l’anima. Le informazioni che potevo dare al commissario, anche volendo, potevano dunque essere solo dei fermo immagine che a mia volta ero riuscita a rubare a fatica dalle nostre conversazioni. Ma il tema della fede e della redenzione era un brandello che saltava fuori molto più spesso di quanto si potesse pensare. Come se la psiche avesse le proprie ragioni che la ragione non conosce. Ma questo, lui, probabilmente, non poteva capirlo.

«Beh, adesso basta col catechismo e la recita della brava ragazza. Piuttosto, parliamo del suo alibi.»

«In che senso?»

«Nel senso che siamo qui per sapere cosa ha fatto questo sabato sera, e se era in compagnia della Carofiglio.»

«Sta parlando di sabato scorso, cioè due giorni fa? Beh, certo che sì! Cristiana era con me, ma non di certo al lavoro come Mistress, perché io non la accompagno mai quando è all’Infernum.»

«E allora dove eravate, care bambine: a giocare con le bambole?»

L’espressione sadica del commissario mi stava comunicando in maniera inequivocabile che, malgrado il mio impeccabile contegno, ero nella merda fino al collo. Dovevo farmi venire in mente l’idea giusta perché, dimenticata ogni presunzione d’innocenza e in assenza dell’attenuante generica “natica palpeggiabile” sembrava determinato a considerarmi mezza colpevole.

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