Un inno al mare, alla sua gente, alla libertà.Che il cielo stellato sopra di noi ci aiuti a riaccendere la speranza








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Si beccheggia. L’oscillazione del mare scandisce il tempo verso l’orizzonte, accarezzandolo con la consuetudine di un’antica amante. È una lancetta generosa, mai tiranna come quella di voialtri che siete soliti tenerla immobile, sulla terra ferma, inchiodandola in mezzo ai polsi; voi che con la mente ingombra rincorrete le vostre astrazioni perché le mani sono sempre vuote, non vi servono a issare reti o annodare scotte.
Quel ritmo ci entra fin dentro alle vene, fino a divenire un Dna invisibile sul quale ridisegniamo ogni più piccolo gesto, un cerchio concentrico che replichiamo all’infinito. Come se ogni singolo movimento fosse partorito e quindi forgiato dal ventre del mare: da lui viene, a lui vuole ritornare. Avanti, indietro. Siamo i più ubriachi tra i sognatori, un pugno sparuto di vecchi lupi che la notte solo lo sguardo mite della luna è capace di ascoltare.
È in mezzo a quel silenzio che capisci che finché le stelle sono tanti piccoli occhi che ti osservano dall’alto, e l’onda del mare è un abbraccio materno che ti culla, non può esistere nessuna solitudine. Quelli che non ne capiscono niente, di certe cose, dicono che ci si ammali, di solitudine. Io invece lo so, cos’è stare soli nel cuore della notte, quando la tempesta se la ride di te, una minuscola pedina sulla scacchiera tra cielo e mare, quando la partita è appena iniziata.
Adrenalina pura, che se non vai fuori di testa te la giochi tutta. Togli le vele per non farle strappare e non ti resta che procedere bestemmiando, andando faticosamente di motore, e allora pensi a quel lontano giorno in cui tua madre ti ha partorito: chi l’avrebbe mai detto che avresti finito i tuoi giorni in pasto ai pesci cane. Poi però quel pensiero diventa una sfida, e allora la maledizione ti muore a fior di labbra, non puoi che sentire qualcosa di più forte, qualcosa di vivo e pulsante che si fa strada e ti fa piangere e pregare allo stesso tempo, amando la vita.
Dico: questo è ammalarsi di solitudine, per voialtri? Io l’ho conosciuto il più matto dei matti. E so per certo che non è come dite. Certe cose le devi respirare, come il legno invecchiato dei gozzi, il sapore di tabacco nelle narici, il sale che non se ne va mai via dalla barba… Noi col rhum abbiamo la stessa venerazione che si ha per l’acqua santa, voi invece ci fate i cocktail alla moda e la musica è il rumore di decibel per stordirvi i timpani, non il soffio del vento che sussurra tra gli alberi. Come potete capire, allora, quando le ragnatele vi tengono in gabbia, e siete sotto anestesia? Si chiamava Pietro, e io credo non fosse un caso. È a lui che devo tutto: quest’umile barca di legno, la licenza per pescare, la mia stessa vita sull’isola, l’amicizia con gli altri, pochi uomini di mare.
Aveva un viso che sembrava un foglio di carta appallottolato che per miracolo era sopravvissuto a un rogo, tanto era solcato dalle rughe, che nemmeno gli si vedevano gli occhi. Una vecchia tartaruga sordomuta, che scucirgli una parola di bocca aveva del miracoloso. Se ne stava sempre col buon Black Soul, un bastardino trovatello che a pescare sembrava ci fosse nato. Si poteva ben dire che, a lungo andare, era finita che si erano addomesticati a vicenda: il cane aveva preso lo sguardo schivo e rugoso del padrone, e il padrone, in cambio di quella strana simbiosi, aveva affinato il suo piccolo innato dono sino all’inverosimile.
Nessuno ci credeva, ma io che l’ho visto coi miei occhi ve lo posso giurare: il vecchio Pietro lo sentiva, il mare. Non come si sente una bella canzone o il profumo della griglia. Lui lo sentiva da dentro, come un richiamo interno, un dialogo con il suo spirito, fino a riconoscerne il gusto, la salinità, l’odore rotondo e al contempo acre.
«Avvicina» diceva d’un tratto, tutto preso da una specie di euforia che lo inebriava: neanche quell’acqua, che aveva appena assaggiato, fosse stata vino. Allora Jacques, o Bernard, o chi era uscito con lui quel giorno, cercavano di accostarsi a riva, per quanto era possibile.
Lo vedevi camminare veloce verso prua, come se fosse di vedetta, e dopo aver inspirato più volte, a pieni polmoni, si sporgeva da un lato, le gambe ancora per miracolo dentro, ma tutto il resto del corpo fuori dalla barca, fino a quando con la faccia non arrivava a toccare l’acqua.
Allora metteva le mani a coppa, e la beveva.
Poi con un cenno del capo diceva «No, non ancora». Tutti tacevano, perché sapevano che era l’unica cosa che dovevano fare. Fidarsi di quel matto di solitudine, che si beveva il mare con le mani come se fosse acqua di sorgente. Poi di nuovo, un accenno del capo. E il marinaio di turno accostava. Quando il rito terminava tutti capivano all’istante. Diceva di sì, «c’est bon, maintenant». Era il segnale. I compagni pescatori gettavano le reti. Poco più sotto, il pieno di pesci.
Quando Pietro ci ha lasciati non ha voluto cerimonie. Il parroco della chiesetta sapeva. Noialtri sapevamo, lo sapeva persino Black Soul. Fu una notte lunghissima. Finalmente aveva restituito al mare il suo favore. Ora erano i pesci, ad assaggiare il suo sapore.





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Al museo Carmignac hanno fatto grandi cose. Enormi quadri di Pop art, installazioni funamboliche di avanguardisti, roba raffinata per menti sottili. Ci sono delle gigantografie imponenti di rock star e ritratti bizzarri di personaggi famosi che neanche al Guggenheim. Roba da veri intenditori: sinergie tra architettura e design, volumetrie in movimento, sperimentazione. Picasso è superato da tempo per chi è del settore e fa dell’arte un vero business.
Mi viene male a pensare che proprio loro, i finanzieri, non hanno mai tenuto in mano un pennello! Così la mia dea ha perso il suo cuore. L’hanno spodestata dall’altare, dandola in pasto a chi la vende senza nemmeno capirla, senza vivere ogni giorno del suo amore, nutrendosi del suo respiro, come faccio io.
La gente mi vede dipingere tele vive, e stupita si ferma a guardare. Anni e anni, mi ci sono voluti per imprigionare il soffio del vento tra le foglie, il movimento ritorto dei tronchi che si avvolgono su loro stessi come contorsionisti, la sofferenza orgogliosa degli alberi, il loro continuo protendere verso il cielo, in cerca di luce. Perché io che la dipingo lo so, che è la luce a vincere sempre sull’ombra.
Il colore caldo della pittura a olio si tende sul pennello creando una pasta spessa e materica. È in quel preciso momento che l’alchimia ha inizio, e sento che lentamente la sfumatura diventa magia. Mischio i pigmenti sapendo che il risultato non è mai una costante, ma sempre una misteriosa variabile che si gioca sul filo della natura: l’umidità, l’umore esterno del soggetto ritratto, il mio occhio vigile e allucinato, l’ispirazione, il soffio del momento. Quel misterioso filo sottile che unisce l’artista al cielo per captarne l’idea, la radice che lega la mia mano al cuore della terra per estrarne sempre nuova linfa creativa.
Mi viene quasi da ridere, se penso alle storie moderne che qualcuno deve avermi raccontato sui nuovi “fisici”: pare che abbiano dimostrato che è l’occhio dell’osservatore a determinare l’esperimento. Non sapevo di dovermi meritare la laurea ad honorem in anticipo sui tempi per i miei inediti meriti scientifici. Lo so da un pezzo, io, che un quadro non è mai uguale a un altro. Anche a voler dipingere più volte lo stesso paesaggio. La rifrazione della luce, il differente calore che determinerà la gradazione del colore, la voce del vento, la gioia o la sofferenza di quello stesso albero. È una continua metamorfosi, e io ne sono l’artefice.
Do voce ai nidi e alle venature dei tronchi, alle chiome infuocate dall’ira per la contaminazione umana, ai gabbiani che fieri della loro preda lambiscono l’onda, alla schiuma del mare che si apre a ventaglio come un’ampia gonna. Le emozioni si fondono sulla tela e diventano liquide, per poi restare impresse lì, solidificate, nel fuggevole attimo del qui e ora. Domani, è già un altro giorno.
Quello che invece resta è il colore sui miei vestiti, che non lavo mai via. Amo sporcarmi le mani, perché chi non si sporca non sperimenta, chi non si sporca resta macchiato nell’anima.
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Non ho studiato molto, ma sull’isola è come se ne avessi dieci, di lauree. Del resto li ho visti, i miei amici, quelli laureati con la fidanzatina il mutuo e le ferie fisse ad agosto, che fine hanno fatto. Passano le giornate rinchiusi in una specie di gabbia con poche finestre, cioè un bunker uso ufficio, che neanche la boccia dei pesci rossi rispetto alla vertigine che sa darti il mare. L’unica certezza che hanno del succedersi delle stagioni: il passaggio dal calorifero al condizionatore. Ma sono troppo occupati a fare altro, per accorgersene.
La loro vita finisce laddove è incominciata la mia, un pezzo di carta firmata, la linea di demarcazione. Lo switch per loro è stato facile: il computer al posto dei libri di scuola, la scrivania si è fatta più grande, la sedia un po’ più comoda, ergonomica. Le loro facce più depresse, le pance sempre più grasse. Scivolano lentamente verso la pensione, illudendosi che sia quella, la vera liberazione. Poi, un giorno, ho visto “quel” film. E non ho scelto la droga, ma la vita, quella vera.
Così ho preso il mio zaino, come fanno le lumache con la propria casa, fissandomelo sulle spalle: un sacco a pelo pesante, qualche vestito di ricambio. Tutto quello che mi appartiene realmente, ora come allora, non è comprimibile. La sete di libertà, non la puoi mettere dentro a nessun contenitore. Ma è proprio quella l’unica, invisibile bomboletta d’ossigeno che se te la sparano nei polmoni voli dritto come un missile verso il cielo, e se non ci sei abituato rischi di precipitare.
Per non cadere a picco ho preso delle precauzioni. Assaporandola lentamente, a piccoli sorsi, come si fa quando con l’ultimo spicciolo che ti è rimasto in tasca sei riuscito a comprarti un po’ di birra, e allora te la succhi lentamente come se fossi un bambino con la cannuccia, sperando che non finisca, dilatando all’infinito quell’ultimo sorso.
Ho iniziato con piccole fughe. Brevi scampoli di assoluto, incerti salti traballanti che mi hanno preparato al grande volo. Per non restare stordito, trafitto da quel senso di vuoto che ti coglie all’improvviso, impreparato alla poesia di un paesaggio a cielo aperto, da abbracciare a tutto tondo mentre pensi che ti appartiene, che se il creato è Dio e Dio è tuo padre, allora tutto questo è tuo, ti spetta di diritto. Chi lo capisce è un poeta, e sa di essere ricco. Tutto il resto è limitazione, una mera scelta di ripiego, quella sì che ti svilisce peggio di un barbone.
C’è una piccola capanna di legno nel cuore dell’isola. D’inverno non do fastidio a nessuno, può bastare in attesa di costruirmi il mio rifugio. Per l’estate invece ho la tenda a ridosso della spiaggia, e il kayak con cui vado in giro, a filo d’onda, lo lascio sempre incastrato tra gli scogli, come un guscio vuoto di tartaruga, un riparo provvisorio per chi, come me, sia in fuga dalle intemperie dell’isola e da quelle della vita.
Mangiare, non è mai un problema. Mi do da fare per tutti, senza però illudermi di lavorare. Un aiuto, una commissione, a volte anche solo un semplice scambio di parole. La gente di qui mi capisce. Basta l’incontro degli occhi, e ci si riconosce.
La prossima isola sarà più piccola, ma ho un progetto ambizioso. Deve avere così tanti alberi da non poterci mai scendere. Lassù, voglio costruirmici il nido come le rondini. Sarò scalatore di pini, funambolo di eucalipti, falco di ulivi, scoiattolo di faggi. Se mai intravedete la mia sagoma muoversi lesta tra le foglie e gli aghi di pino, i capelli arruffati che si confondono tra la paglia e il fieno, non spaventatevi. Anche la libertà, per essere credibile, possiede la sua ombra.
