DONNE CHE CORRONO LIBERE- Storia di una liberazione da preconcetti e imposizioni

Secondo Posto al Concorso Letterario Nazionale “Storie di Donne” (5 giugno 2021) organizzato dal Comune di Arco. Titolo originale : “Street Bob striptease

“Un vero e proprio inno alla LIBERTÀ, quella vera e autentica, che si prova on the road in sella all’iconica a Harley Davidson, simbolo degli anni Sessanta di Easy Rider e della beat generation. Uno stile diretto e senza fronzoli che arriva direttamente al cuore del lettore. Un viaggio fatto di emozioni che non si dimenticano” (presidente di Giuria, dott.ssa Arianna Miorelli)

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Prendete una ragazza perbene; sceglietela nella provincia benestante; fatela studiare dalle suore; insegnatele il latino e pure qualche sprazzo di greco; che apprenda quanto basta di storia e di filosofia abbia sufficiente nozione; spronatela a suonare il pianoforte ma che sulle punte non sogni mai di folleggiare nelle danze; fatele fare la comunione, la cresima, la professione di fede e che il prete ne accolga puntuale la confessione; vietatele parolacce, minigonne equivoche e il rossetto provocante; convincetela che la messa della domenica è una sacra istituzione; fate in modo che si procuri all’oratorio “il giusto fidanzato”, ma nel caso sia pure ricco, che le malelingue non sospettino un qualche incontro combinato. Mantenete sempre il giusto equilibrio tra una dimessa modestia e un’acuta ambizione: che la vostra pupilla sia la migliore in tutto, ma che resti educatamente in disparte; da tutti ne sia lodata la gentilezza.

E poi prendete me.

Che mentre la mia parte più diligente aveva sempre finto di starsene quieta, silenziosamente assuefatta alle regole di una famiglia per tutti irreprensibile, quella meno visibile si ricavava nell’ombra una segreta via di fuga, un reticolo di strade sotto traccia per evadere dalle sbarre invisibili del suo impietoso carcere.

Essere la prima della classe meritandomi borse di studio mi è servito da copertura: ho potuto dare ripetizioni guadagnandomi da sola il necessario per la sopravvivenza. E soprattutto, risparmiando sul resto, senza bisogno di propormi per la spesa per farci poi la cresta. Non solo mi sono procurata i rossetti viola indossati di nascosto, gli stivaloni col tacco alto e qualche incursione in incognita, la domenica pomeriggio, nelle peggiori discoteche del posto. Ma anche il mio sogno più segreto, l’apice di qualsiasi pensiero proibito, a discapito di ceffoni paterni e materne recriminazioni, eccitante più di una pomiciata estiva col Dj più ambito da tutta la pineta, osè più di un tatuaggio nell’interno coscia, o di un piercing sfavillante sulla parte interna del mio ombelico. 

Una maledetta Harley Davidson da farmi giocare la mia unica carta per la dannazione. Una Street Bob rosso fuoco come il peggiore dei miei demoni, e se non mi avesse portato dritta all’inferno, fanculo ogni altra devozione. Dal giorno in cui mi sono professata atea, la lamiera smaltata è assurta a mia unica religione.

Solo a sentirne da lontano il rombo rauco del boato, così rotondo e pieno, vecchio stampo come allora l’inconfondibile modello iconico, il mio corpo si scioglieva in un una pioggia dal calore dorato, ed entravo in uno stato di trance molto simile all’eccitazione. Una trionfante erezione s’impadroniva di me, supponevo visibile, e soprattutto tangibile proprio nel mezzo del mio petto, ma il solo pensarlo mi era proibito, figurarsi dichiarare apertamente la mia predilezione, men che meno osare realizzare una tale, inarrivabile allucinazione.

Quando però capii, archiviati i primi flirt adolescenziali, che la mia dolce metà sarebbe stata irrevocabilmente femmina, dovetti finalmente capitolare, e iniziai perciò a sostituire in camera i vecchi poster degli attori per metterci le sue foto, il suo nome inciso a lettere cubitali. Fu amore a prima vista, e perciò le giurai fedeltà eterna.

Foto di Javier Aguilera- Pexels

Attraverso di lei, mia unica e speciale Musa, avrei varcato il confine più estremo della ragione, sgasando il motore a tutta birra, e finalmente mi sarei messa in sella alla mia nuova vita, verso una direzione ancora inedita, un orizzonte inebriante dall’odore di benzina, asfalto fresco e tanta adrenalina. Se l’autostrada per la perdizione era lastricata di fango, ne desideravo sentire sulla pelle gli schizzi improvvisi delle pozzanghere, respirarne appieno la polvere, le folate di vento nelle pupille e i nodi fitti nei capelli. La gasolina era la sola via che mi avrebbe salvata dall’odore monotono in cui ero sempre vissuta, quello ovattato della naftalina.

Mi ero organizzata rivendendomi la collana di perle, il regalo per la mia laurea con il massimo dei voti, medaglia al valore il bacio accademico, a dispetto di una verginità precaria di cui facevo ancora un punto d’onore. Che presto me ne sarei sbarazzata, non nutrivo alcun dubbio. 

La sola cosa che volevo era darmi alla fuga in solitario partendo di nascosto, con una tenda canadese, un sacco a pelo sulle spalle e qualche ulteriore spicciolo duramente racimolato.

Il piano di viaggio era semplice, tutto sommato. 

La Sardegna, mia terra d’origine. Quell’illustre sconosciuta, per via del fatto che, nella buona società borghese, non viene mai ostentata la sana radice “terrona”. Per questo, infrangendo il tabù, l’avevo eletta a meta indiscussa della mia nuova terra di conquista.

Foto di David Coijman – Pexels

Avevo scelto il tratto Cagliari – Alghero, ma al contrario. Non amando le risalite, le curve dei miei duecentotrenta kilometri avrebbero decretato la mia discesa irrevocabile nel Sud più profondo, nei meandri nascosti delle mie origini. Forse perdendo una parte di me avrei ritrovato altre verità, quelle difficili da ricordare per la gente immersa nel post industriale, la parte più vera di una realtà agricola, un mondo ancora rurale dove i valori non si misurano a chili di voti scolastici, e i pizzi inamidati dei colletti non sono gli orpelli per ingenue collegiali, ma un modo vero di cui vivere, manifattura e storia, sudore e fatica, tradizioneche brucia.

Sapevo che Alghero era un po’ la Barcellona italiana, ma non ne immaginavo i colori così intensi, le case colorate custodite tra le mura fortificate e i bastioni del lungomare. Esattamente come il mio cuore che, dietro alla cortina di perfezione in cui fino allora mi ero costretta a vivere, bruciava dal desiderio di esplodere, attendendo da tempo il momento giusto per rivelarsi a se stesso, con le sue luci e le sue ombre, i suoi misteri inesplorati, i sentieri cupi della mia psiche.

Fu una lunga scommessa, una partita a scacchi col destino.

Io e la mia motocicletta, per la prima volta da sola, a dimostrare che potevo farcela, che era possibile evadere dalle mura domestiche e guadagnarmi il futuro, scegliere chi essere, dove vivere, quale professione intraprendere, o semplicemente lasciarmi andare. Al caso, al profumo del mirto selvatico, al qui e ora, al senza programma, al presente infinito che si dilata lungo il tratto che separa un villaggio dall’altro, come due punti sulla retta del tempo per scoprire che è solo un’illusione, che ci puoi stare dentro se lo guardi da fuori. Mi sarei tenuta salda alla mia sella come al punto di appoggio per sollevare il mio personale mondo, guardandolo da un’altra prospettiva, quella che si snoda lungo le curve a gomito della lunga strada.

Gli attacchi di panico della sera iniziarono a diradarsi, semplicemente perché li accoglievo come dei vecchi amici che venivano a scuotermi per regalarmi brividi inediti. Le raffiche di vento erano come gli schiaffi delle onde quando sulle spiagge bianche imparai a fare surf, là dove per la prima volta incontrai Teresa.

Una bellezza opposta alla mia, sorridente come il riflesso dei raggi sull’acqua marina, forte come la radice degli arbusti profumati, lei che non arrossiva mai, che il sole sulla pelle solamente la imbruniva, che non provava mai vergogna, la nudità non la imbarazzava. Era sfacciata e cruda, a volte cinicamente dura, vera come la gente della sua grande isola.

Non ci fu bisogno di spiegazioni. Tra noi nacque subito l’intesa, tra un bicchiere di Porto e le musiche della sagra, il ritmo scandito dai grandi scialli di lana, le gonne a ruota, il suo sguardo nero, indomito da gitana.

Foto di Jill Wellington- Pexels

Prendete una ragazza perbene; sceglietela nella provincia benestante; allevatela con la migliore educazione; che conosca Platone, suoni Chopin e a memoria reciti pure qualche brano del Decamerone. 

Ma il giorno che il suo sguardo incrocerà il suo sogno, le vostre certezze diventeranno briciole. Udirete il rombo del motore, il cilindro e il comando del cambio diventeranno allora il vostro peggiore incubo, l’orologio di una bomba a ore, un improvviso uragano dal fragore indomabile. 

Sarà l’incontro inevitabile col destino, quello che oggi si giocano insieme due giovani donne, mano nella mano, sulla mappa invisibile del viaggio dell’anima, rigorosamente on the road, per sempre in sella alla loro moto.


Motivazione della Giuria:

“Un vero e proprio inno alla LIBERTÀ, quella vera e autentica, che si prova on the road in sella all’iconica a Harley Davidson, simbolo degli anni Sessanta di Easy Rider e della beat generation. Uno stile diretto e senza fronzoli che arriva direttamente al cuore del lettore. Un viaggio fatto di emozioni che non si dimenticano” (presidente di Giuria, dott.ssa Arianna Miorelli)