In una grande palude al centro dell’Africa viveva sereno, con tutta la sua famiglia, un piccolo coccodrillo di nome Camillo.
Era un vivace cucciolo di alligatore, e possedeva un carattere gentile, per questo tutti gli volevano bene. La sua infanzia era trascorsa tranquilla tra i tuffi nel fiume, le lunghe sieste spiaggiato al sole e gli agguati alle prime prede che Camillo si allenava a catturare in attesa del grande giorno.
L’ingresso nel mondo degli adulti era infatti segnato, per tutti i piccoli della sua specie, da una prova molto difficile. Il loro ruolo all’interno del clan di appartenenza, per Camillo uno dei più importanti di tutta l’Africa, sarebbe esclusivamente dipeso da tale esito: una battuta di caccia in cui il piccolo anfibio avrebbe dovuto dare prova del suo talento di predatore.
Tutti speravano che Camillo diventasse capo cacciatore, il ruolo più importante tra gli alligatori, ma per raggiungere tale rango sarebbe stato necessario aggredire un grande mammifero, come un ippopotamo o di un elefante.
Tuttavia, a dispetto dei progetti dei suoi familiari, il piccolo coccodrillo non sognava un futuro di gloria. Al contrario, serbava in fondo al cuore un animo pacifico e ogni volta che si ritrovava nella necessità di aggredire un altro animale, fosse anche solo una piccola rana, reprimeva il rimorso che ne seguiva nascondendosi sulla riva del fiume, dove al riparo da tutti versava silenziose lacrime di disperazione.
Fu proprio in tale situazione che un giorno fece la conoscenza di un grosso elefante. Vedendolo piangere, il pachiderma s’intenerì e gli si avvicinò per consolarlo.
«Perché sei triste?» gli domandò.
«Perché i miei si aspettano che un giorno riesca a cacciare un elefante grande come te. Ma io non ne troverò mai il coraggio, e in realtà la caccia non mi interessa per niente» disse Camillo tra le lacrime.
Il coccodrillo sentiva di riporre una grande e curiosa fiducia verso quel mammifero, seppure tanto diverso da lui, e a poco a poco riuscì a confidargli le sue paure più profonde. Come, ad esempio, il fatto di non sentirsi a proprio agio nel corpo di anfibio. Avrebbe voluto fare come i pesci o gli altri quadrupedi, scegliendo dove vivere tra l’acqua e la terra, per non ritrovarsi continuamente a oscillare tra i due mondi.
«Le cose non sono mai come sembrano» sospirò l’elefante scuotendo la lunga proboscide da cui fiottò uno zampillo d’acqua. «Sappi, mio piccolo coccodrillo, che nonostante il mio aspetto, anch’io sono molto triste. Mi chiamo Armando, e non sono affatto contento della mia mole. Vorrei essere più agile e snello, libero di muovermi nella foresta senza dovermi trascinare ogni volta questo pesante fardello».
«Siamo dunque entrambi condannati a essere infelici, sopportando un corpo che non amiamo?» domandò a fil di voce Camillo, tremando per il timore che il suo destino fosse per sempre segnato, senza la speranza di una soluzione.
«No, caro amico. Ho sentito sussurrare dalle scimmie, nel cuore della foresta, che nel lontano Oriente esiste un saggio della specie dei panda capace di risolvere ogni problema. Le scimmie sono animali inaffidabili, è vero, ma sono anche reputate molto intelligenti, e tra loro non mentono mai quando parlano dall’alto degli alberi. Domattina partirò alla ricerca del saggio panda. Se vuoi unirti a me, non dovrai fare altro che farti trovare all’alba sulla riva del fiume».

L’indomani, prima che facesse giorno, Camillo si accomiatò dalla palude. Sentiva una profonda sensazione di nostalgia nel guardare le acque in cui era cresciuto, perché in fondo al cuore sperava di ritornare così cambiato che nessuno lo avrebbe più riconosciuto. E forse, allora, avrebbe avuto il coraggio di mostrarsi a tutti nella sua vera natura.
Dopo aver salutato la loro terra, i due amici partirono. Il viaggio era lungo e non avevano molti indizi sulla direzione da prendere. Sapevano solo che dovevano dirigersi verso Est, nel paese del Sol Levante, compiendo a ritroso il percorso della grande stella.
Dopo molti giorni di cammino, giunsero in riva al mare. Temendo che il loro viaggio potesse essere già finito, e non avendo alcuna idea di come varcare quella grande distesa d’acqua che a loro sembrava infinita, furono presi dallo sconforto. Fu allora che udirono il vociare fitto dei muli di una carovana in attesa di imbarcarsi, ed ebbero l’idea di accodarsi.
Per l’elefante fu facile: era un animale talmente prezioso che i mercanti furono felici di poterlo comprendere nel loro equipaggio, ma a Camillo non rimase altra scelta che nascondersi tra le casse delle merci. Sapeva che se lo avessero scoperto lo avrebbero ucciso per vendere a un buon prezzo la sua preziosa pelle.
Restando nella carovana, i due amici procedettero per mesi verso l’Oriente, percorrendo le rotte più impervie della leggendaria Via della Seta. Attraversarono le montagne di sabbia e le rocce più scoscese, passarono per la mitica città di Baghdad, che scoprirono famosa per le incantevoli moschee e i palazzi arabescati, varcarono le porte dell’antica Persia e proseguirono infine per Samarcanda, la leggendaria città posta al centro delle rotte di tutta l’Asia.
Giunta alle soglie di un nuovo deserto al confine con la Mongolia, la carovana fu costretta a fermarsi in un’oasi, spinta dalla necessità di ripararsi dalle tempeste di sabbia e di rifocillarsi dopo il lungo cammino. Fu così che abbeverandosi a una fonte, all’ombra di una palma di datteri, Armando fece la conoscenza di un cammello. Si chiamava Dino ed era giunto sino a quelle terre per uno strano scopo. Aveva udito che ancora più a oriente, in Cina, si trovava una foresta di bambù dove viveva un saggio panda, da tutti conosciuto per il suo dono di risolvere i problemi.
Al sentire pronunciare il nome del maestro, l’elefante ebbe un sussulto di gioia: non si era dunque perso in una missione immaginaria, e la meta dei suoi desideri poteva essere vicina. Domandò al cammello quale fosse il suo problema, e si sorprese nello scoprire che anche Dino non si sentiva a proprio agio nel suo corpo di cammello: le due gobbe della sella lo facevano sentire goffo rispetto agli animali più nobili come il cavallo, che da sempre invidiava.
Dino, a sua volta, non aveva viaggiato da solo: era giunto sino all’oasi in compagnia dell’amica Jospehine, un bellissimo esemplare di giraffa il cui lungo collo era motivo di ammirazione per tutta la savana. Josephine sognava di diventare regina di eleganza, ma per fare questo voleva cambiare il suo manto, che era troppo simile a quello delle altre giraffe, mentre lei avrebbe voluto possedere un pelo unica, delle macchie di colore sgargiante, magari con una bella criniera fluorescente.
Armando fu entusiasta nello scoprire che il saggio panda possedeva un largo seguito e che lui e il suo amico Camillo non erano i soli a sentirsi a disagio nel proprio corpo. Lieti di essere accomunati da un unico scopo, i quattro animali decisero di proseguire insieme il percorso finale del viaggio: abbandonarono la carovana nel cuore della notte, e proseguirono per conto proprio alla ricerca della grande foresta di bambù.
Dopo diverse settimane di duro cammino, all’improvviso si resero conto di essere finalmente arrivati. Si sentirono avvolgere dal verde sgargiante degli alberi dai lunghi tronchi e videro i bambù che svettavano slanciati fino al cielo.
Trovare la dimora del saggio panda non fu però un’impresa semplice, perchè quegli orsetti si trovavano un po’ ovunque nella foresta, intenti a placare il grande appetito con i cuori del bambù, a rifarsi i denti sui tronchi, a dormicchiare accoccolati alle radici degli alberi o sulla sommità di grandi rocce. Fu per un puro colpo di fortuna che, dopo un lungo girovagare senza meta, i quattro amici trovarono infine una piccola grotta all’interno della quale, proprio lì di spalle, seduto a schiena eretta e le zampe incrociate, trovarono il saggio panda. Aveva un aspetto maestoso, sebbene potessero vederlo solo di schiena.
«Chi viene a disturbare il mio riposo?» disse il panda.
«Siamo quattro stranieri» risposero in coro.
«Questo lo posso capire da solo. Piuttosto, abbiate la compiacenza di farvi avanti, affinché vi possa guardare meglio».
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