LA LINCE- (libero adattamento della novella LA LUPA)

RACCONTO FINALISTA AL PREMIO “SEVEN”- I SETTE VIZI CAPITALI, sezione “LA LUSSURIA”

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Era alta e magra, un seno turgido da resuscitare i defunti, natiche rotonde da sembrar disegnate col compasso, e su quel volto così diafano da suscitare inquietudine spiccavano due labbra rosso sangue che bastava guardarle per perdere la bussola e far venir meno ogni proposito di rettitudine. Un solo suo sguardo, poi, era più che sufficiente a trasformare in un satanasso anche il più onesto degli uomini.

Eppure non era più giovane, o perlomeno non si poteva dire che fosse nel fiore degli anni. Sulla sua pelle si erano ormai succedute non poche primavere, tanto da meritarsi, quando per strada ancheggiava fiera come sfilando in passerella, l’appellativo in codice, ormai divenuto di moda.

“La Milf”, era il nomignolo sussurrato al suo passaggio.

I ragazzi la osservavano da lontano con simulato disinteresse ma poi, conoscendone il nome, la rintracciavano sui social, dove al riparo da ogni giudizio se la divoravano con gli occhi e non solo, la mano preda di smanie onanistiche dava sfogo alle fantasie più proibite.

Wild cat, la lince, era il nickname del suo profilo. Come l’inseparabile giacchino in pelo che si era fatta confezionare su misura, infischiandosene di ecologia, politicamente corretto e ambientalismo, un mucchio di chiacchiere per radical chic, lei che col duro lavoro si era fatta strada. Viveva ai Parioli, ma delle steppe russe conservava ancora il gelo, lo sguardo tagliente e malinconico di due occhi grigi capaci di strapparti il cuore.

Chi era stato con lei non dimenticava. Era maestra nell’arte dello stordimento, regalava ogni volta ai suoi amanti un’ebrezza strana, la passione selvaggia le si agitava dentro senza filtri, disegnando inedite geometrie di corpi fino a raggiungere la soglia del piacere più intenso. Seguiva un graffio dell’animo e un attimo prima della fusione, sfiorando di poco l’apice del sublime, decretava il momento della separazione.

Sul suo passato, un velo di mistero. Nessuno ne conosceva l’esatta origine, il vissuto e le qualifiche, sebbene se ne intuisse la solitudine, le ombre smarginate che a tratti riemergevano dal suo volto, come le rughe che ormai  si era stancata di nascondere. Postava foto in pose provocanti, la lingerie in pizzo lasciava trasparire le forme della sua intimità, palesando un’intenzione chiara, al di là di ogni finzione. Gli uomini ne annotavano il numero o l’email indicata, e la contattavano come in preda ad un’avida compulsione, anche nelle ore più improbabili della giornata.

Ma lei amava negarsi. Esperta nel giocare coi loro spettri, li stuzzicava nelle chat o al telefono conducendoli fino al limite, a quel confine dove si animavano i loro peggiori demoni, per poi lasciarli in sospeso, sull’orlo della vertigine. Amava invece la carne fresca, quella tenera dei più giovani ancora imberbi, andava matta per la loro aria indifesa. A costo di guadagnare solamente due miseri spiccioli o di rinunciare del tutto ai soldi, tanto le bastava quello che le passava il suo ex marito, così almeno diceva.

Era colta come da una febbre, una sete che sapeva quasi di arsura quando tra le braccia le si buttavano quelli che chiamava i suoi cuccioli, adolescenti ancora esili che si divorava a piccoli sorsi, tanto con loro era devota da far quasi paura. Poi però di colpo cambiava, ed ecco che tirava fuori la belva famelica, gli strusciava addosso i grandi seni stringendoseli tra le cosce e alla fine arrivava persino a prenderseli tra le natiche, insegnando loro tutto quello che solo nei bar si poteva sussurrare a mezza voce, e che molti dei loro amici, comunque, non potevano nemmeno immaginare.

Fu il povero Vanni a cadere nelle sue grinfie. Lui che tra noi era il più schivo, a dispetto del corpo atletico da Riace, e nelle spiagge tra Ostia e Torvajanica era conosciuto come il bagnino più giovane. Sotto i raggi del sole i suoi muscoli rilucevano, un faro acceso per le ragazze del posto, ma lui seguitava a muoversi a testa bassa, silenzioso, sollevando tutto il giorno sdraio e ombrelloni, infaticabile più di un mulo.

Solo nelle giornate di vento, quando le spiagge di ponente non riescono a reggere l’assalto della tempesta, prendeva la tavola e gareggiava con le onde, come se si trattasse di abbattere un muro invisibile posto tra lui e il suo destino, in una lunga e silenziosa sfida.

Fu proprio lì, che lei lo vide per la prima volta.

Non era solita esporsi ai raggi del sole, ma nelle giornate di maltempo era diverso, la furia del mare sembrava placarne le voglie, e allora la sua natura selvatica si assopiva divenendo quasi docile. Erano spiagge eleganti, quelle, e le rare volte che era di buon umore amava atteggiarsi a gran signora. Ma quando vide Vanni, così forte benché giovane lottare nel mezzo del turbine, le si smosse dentro qualcosa. Un misto di tenerezza e tormento, forse il risveglio del suo animo inquieto.

Tornò altri giorni per studiarselo meglio, e poi ancora, fino ad assaporare ogni dettaglio del suo statuario corpo, annusandone l’odore che fedele le portava il vento. Una sera di fine settembre, finalmente, lo aspettò più a lungo, rannicchiata vicino alla riva nei pressi del grande scoglio. Non temeva il freddo, sembrava che le intemperie le fossero amiche. Ci fu un lungo sguardo, intenso ed eloquente come il silenzio che li aveva sin da subito avvinti. Gli mormorò poche parole, mozziconi di una frase il cui senso era difficile da fraintendere.

«Conosco un posto segreto. Staremo tranquilli».

Aveva aguzzato fino al limite il suo fiuto, esperta com’era nell’arte dell’avvistamento. Si era arrangiata un sordido pied-à-terre ricavato all’interno di un magazzino dimesso, celato tra le retrovie del porto, maleodorante di pesce, disinfettante e cloroformio. Al suo interno vi aveva adagiato dei materassini in schiuma, alcuni slabbrati cuscini e una leggera coperta di lana. Per lui, era la prima volta.

Ne seguirono poi molte altre, anche quando l’umidità dell’inverno si fece via via più penetrante e lui aveva conosciuto una ragazza, e voleva proteggerne il candore fragile, quel timido amore nel fiore della giovinezza.

«Vattene», le disse, «è inutile che torni a cercarmi».

Ma poi non resisteva ed ogni settimana tornava più infoiato di prima da lei che, talmente sicura che lui avrebbe infranto la sua promessa, con i risparmi si era nel frattempo affittata una rimessa e l’aveva dotata di una stufa, di una confortevole branda e di una vecchia lampada. Anzi, quando trascorrevano oltre dieci giorni era lui per primo ad aspettarla in preda all’ansia lungo il ciglio della strada, dove spesso si sorprendeva a vagare randagio, divorato dal sospetto che lei, in quel letto, ci avesse portato un altro.

Un giorno, però, ci fu una soffiata.

Una specie di vendetta, una ripicca, la gelosia di qualcuno a cui lei non si era concessa. Denunciarono il riparo improvvisato chiaramente abusivo, ma soprattutto il rapporto quasi incestuoso tra “quella” donna matura e un adolescente, perciò non sarebbero più riusciti a tenerlo clandestino. Fu come se l’avessero trafitta nel vivo della carne. Sentì una pugnalata al cuore, una morsa netta afferrarle la bocca dello stomaco.

Gridò dimenandosi, volarono ovunque calci e pugni, ma anche quando furono costretti a immobilizzarla i morsi non finirono, e anzi iniziò a rivolgerli a se stessa, arrivando persino a s trapparsi i capelli.Quel figlio che le era stato tolto da piccolo avrebbe avuto l’età di Vanni. Ignorava se ne possedesse la stessa corporatura atletica e i decisi lineamenti del volto, ma non avendolo mai conosciuto solamente tra le braccia di quel ragazzo riusciva a placare la sua pena, e a volte persino lo immaginava, disegnandone i contorni del corpo e tuffandosi nel triste silenzio degli occhi, forse così simili ai suoi.

Era stato all’improvviso, che le avevano dato l’annuncio. Un incidente in moto, e il suo bambino se ne era andato per sempre: la famiglia adottiva aveva avvertito il desiderio di conoscerla, come se il dolore condiviso potesse in qualche modo stemperare il percorso delle ingiustizie, azzerando con un colpo di spugna tutte le diseguaglianze che prima l’avevano tenuta distante, relegata nei suo ghetto di donna perduta. Ma lei non aveva mai dimenticato. Quel figlio aveva continuato a viverle dentro, prima durante e dopo, per tutto il tempo dal giorno in cui glielo avevano strappato, perché era troppo giovane, e un investimento così importante come lei, certi uomini del giro del malaffare, non lo avrebbero mai mollato.

Ritrovarono il suo corpo tra gli scogli, gonfio d’acqua ma miracolosamente risparmiato dallo strazio delle onde. Qualcuno lo aveva ripescato, un marinaio o forse un vecchio amante e adagiandolo sulla riva, delicatamente come in un sonno profondo, lo aveva lì deposto.

La lince, finalmente, avrebbe riposato in pace.

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