Cieli Immensi. Racconto breve di Silvia Alonso contro la violenza sulla donna

In occasione della GIORNATA INTERNAZIONALE contro la VIOLENZA SULLA DONNA ripropongo il mio racconto

Cieli Immensi, terzo classificato lo scorso anno al Premio Letterario al femminile Laurizia, (25.11.2020) e successivamente pubblicato sul settimanale online Noi Donne🤞🏼🤩🙌🏻

Un racconto di liberazione dalla violenza psicologica. Un cammino verso la luce, oltre la nebbia che ci fa sentire inferiori, sbagliate, poco amate.

Lottare, credere, risalire in superficie dall’apnea forzata. Vivere, amarsi, crederci. Siamo uniche, una fonte immensa di amore che per prima cosa deve credere in se stessa.

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La porta sbatte dietro di me. Dal fondo dei cardini ne sento rimbalzare il rumore pesante, simile al grugnito sordo di un animale inferocito. Non ho più tempo per alcun ripensamento, o il tarlo del dubbio si farebbe strada, e da lì il contraccolpo del pentimento. Voglio lasciarmi alle spalle l’immagine soffocante delle quattro mura che fino a oggi mi hanno rinchiusa in una gabbia di piombo, le pareti strozzate sul mio corpo in una morsa tagliente. Dimenticare l’odore di rancido, esasperazione claustrofobica della mia mente, diventato insopportabile.

Mi riempio i polmoni di un’aria cristallina, concedendo una tregua al tamburo impazzito del mio cuore. Il solo essere riuscita a dire basta mi proietta in un orizzonte che adesso mi sembra sconfinato. Tutto si è dilatato all’ennesima potenza, come se mi fossi trasformata nella regina dell’universo e potessi abbracciarne l’infinita bellezza che per un breve istante sento disvelarsi. Ho come la sensazione che mi stiano spuntando delle piccole ali che mi permettono di emergere a poco a poco, goccia dopo goccia, dall’apnea forzata di un pozzo denso e scuro. Il laccio che mi stringe la gola si fa più lento, la stretta del cuore meno pressante, gli occhi più leggeri. Posso osare spingere lo sguardo più innanzi, guardare l’orizzonte e sentire che il mare della vita non è più solo un peso sovrastante, ma gocce vive con cui riesco a ristabilire, almeno per poco, un primo contatto.

Sento respirare ogni cellula della mia pelle, mi nutro di questa sensazione piena, fatta di pura bellezza, il resto può aspettare; il resto è niente e questo è il tutto, l’irripetibile attimo assoluto del presente.

Davanti a me si staglia l’immagine della strada, netta nel suo scorrere. Oceani di asfalto segnano il confine delle mille possibilità che mi si delineano innanzi, ma non so se prevalga l’ansia o la gioia. Spingo lo sguardo fin dove mi è possibile, per cercare invano la rassicurazione di un bivio. Destra o sinistra: nessuno spazio alla sintesi, solo il conflitto della scelta, quello a cui sono sempre stata abituata. Ma la verticalità è implacabile, e io mi sento nuovamente persa, smarrita nella libertà di trovarmi davanti l’intera gamma delle strade invisibili, quelle esistenti e quelle ancora da scoprire. In che direzione andare quando la pagina è bianca e devi riscrivere da capo l’ingorgo illogico della tua vita? Ripartire da zero, questo è il punto. Non sono fatta per i salti nel vuoto e non ho voglia di andare a capo. Troppo questo infinito, per chi per anni si è autocostretta a vivere nel limite delle proprie illusioni, sotto vuoto, nella boccia dei pesci rossi. Respiro lentamente trattenendo l’aria mentre cerco di placare l’ansia. La nuvola nera che si stava abbattendo sembra allontanarsi, e al suo posto subentra il vuoto. È il momento.

Giro le chiavi nella fessura accanto al volante e lascio che i pensieri scorrano fluidi, come se a guidarmi fosse il pilota automatico di una me sconosciuta, che mi abita dentro. La stessa me che da troppo tempo ho fatto tacere e che adesso si sta affacciando timidamente, osando prendere il comando della sua vita. Sembra conoscere la direzione con sicurezza, senza porsi domande. Semplicemente, agisce col suo radar interiore, senza farsi sopraffare dalle circostanze, non ascolta il giudizio altrui, non si lascia paralizzare dalla paura di sbagliare, non teme il ricatto dei propri aguzzini, ma con una determinazione che mi sembra estranea mette le mani sul volante, aziona il motore, schiaccia il pedale e guida. Nella flebile luce del tramonto vedo sfocarsi progressivamente i contorni delle cose, anche loro si lasciano andare per sciogliersi nella natura circostante fino a confluire in un disegno più morbido, fatto di luci e ombre, un sospiro dell’universo prima che cali la notte. Le prime stelle appaiono timidamente sul display della mia automobile e si confondono con i fari della strada, lucciole e lanterne sono la mia unica compagnia.

D’impulso mi ritrovo a frugare negli angoli più remoti del cruscotto per rinvenirne alcuni tesori nascosti, vecchie cassette dimenticate da tempo. Le note graffianti di un rock duro iniziano a intonare un urlo di rivolta che mi fa ritornare viva, come nella mia gioventù. Urla, grida e proteste al vetriolo, bombe a mano sull’incendio della mia vita, esplosioni che appicco esasperata, nostalgica di quella me rivoltosa che era finita chissà dove. La rabbia trattenuta ha il sopravvento, la sento montare dal cratere compresso delle mie emozioni fino a quando esplode incandescente, trascinandosi dietro lapilli, pietre e scintille che mi grandinano addosso. Ogni mio argine è franato, lasciandomi in balia dei miei demoni più oscuri. Mi detesto, mi odio, non mi sopporto più, mi sento solo un completo, assoluto fallimento. Un garbuglio insensato di possibilità lasciate colpevolmente abortire. Non più degno di vita. Vorrei distruggere tutto, mi basterebbe premere l’acceleratore e potrei saltare direttamente in aria. Ma una voce nascosta nel mio profondo mi spinge a frenare, forse l’ultimo residuo di un istinto di sopravvivenza che riesce a farsi avanti, suggerendomi di accostare e calmarmi, così non ho altra scelta che consegnarmi al silenzio.

Come ho potuto tollerare tanto? Come ho potuto lasciargli fare quello che mi ha fatto, farlo arrivare fino a questo punto? Nessun diritto di parola né la libertà di comunicare o di avere amici, sradicata da tutto e da tutti. Solo un lui macrocefalo senza orecchie, un ventriloquo prepotente su cui tutti gli obiettivi dovevano essere puntati. Mai minacce espresse, certo, ma l’eterno, strisciante ricatto, ancor più violento, di un possibile “vuoto” ove mai mi fossi opposta alla sua volontà. Poi lo spettro della follia, quella nuvola nera di terrore in cui mi avrebbe gettata qualora avessi parlato. Sorridere, fingere, tirare avanti per amore di mio figlio, troppo piccolo per capire, troppo fragile per venire spezzato dalle urla costanti delle nostre liti ad armi impari. Sorridere, fingere, sperare che domani sarebbe stato meglio. Sapere nel mio intimo che nulla sarebbe mai cambiato, ma la serenità interiore no, la mia vera bellezza che mi illuminava da dentro, quella nessuno me l’avrebbe scippata. Sapere che esisteva una parte nascosta di me che, malgrado i graffi e le lacerazioni interiori, sarebbe riuscita a restare intatta per tornare prima o poi a brillare, più splendente di prima: questo mi ha spinta a sopravvivere. Sorridere, fingere, resistere. Spingere la mia fede oltre il recinto della violenza. Un giorno sarebbe arrivato il momento giusto. Mio figlio sarebbe cresciuto, avrebbe capito, mi avrebbe perdonata. Ed ecco: quel giorno è arrivato. Per una volta sono riuscita a mettere da parte la mamma e ho fatto prevalere la donna. Quella che lotta e fugge dall’incubo, quella che alza la testa e dice basta. Mia per sempre.

Un’altra vita, un’altra musica. Da questo stesso momento tutto sarà diverso, me lo prometto. Rigiro tra le mani un vecchio nastro, uno di quei motivi malinconici che ti conservano nel cuore la speranza e ti accarezzano dolcemente l’anima come una culla, nelle loro note il movimento del mare, un’onda di schiuma che lascia tesori sulla mia risacca. È il lamento del violino della morna, capace di ricomporre con gentilezza la geografia spettinata dei miei sentimenti. Sento l’archetto del violino toccare le mie corde più nascoste, e senza che me ne dia conto, senza capire cosa mi stia succedendo, irrompo in un pianto liberatorio. Ci sono lacrime che hanno il potere di cicatrizzare l’anima, e queste piccole gocce di rugiada, adesso lo sento, sanno lavare ferite che pensavo ormai croniche.

Un alito di vento mi sfiora le spalle, una presenza sottile che mi tende la mano, un sorriso invisibile che mi illumina il volto. Ora è solo questione di tempo. Verrà la notte e calerà il silenzio anche sul mio dolore, un balsamo alato mi risolleverà leggera, scioglierà la nebbia che mi avvolge fitta, il rancore e la rabbia svaniranno lentamente. E poi, cosa sarà?

D’istinto ho come un’intuizione. Allungo di nuovo la mano nel cruscotto, questa volta con un’altra consapevolezza, sapendo di avervi sempre custodito lo scrigno dei miei più piccoli segreti. Tesori che al mondo esterno appaiono insignificanti, ma che conservano sempre grandi verità. Foglietti mal ripiegati e poi sgualciti, disegni ormai sbiaditi, appunti presi alla rinfusa, poesie abbozzate sulle vecchie scatole di Marlboro, confezioni dimenticate di Arbre Magique, gomme da masticare al sapore di fragola, le uniche che facevano il pallone gigante. Le piccole cose che sanno di nulla, ma ci danno la pace. La mia intuizione non m’inganna, e così trovo subito la risposta alla mia domanda. Dalla capsula del tempo riemerge un flyer colorato, sull’orecchia ormai strappata il nome di un locale notturno che si legge solo in parte, ma per me è come un faro nella notte. Un indirizzo che una volta conoscevo a memoria. La mia oasi dove mi sono sempre sentita libera. Un tempio di pace nascosto tra le dune del deserto, la fede ritrovata tra gli oceani di sabbia. Riportato alle mie latitudini, fatte di umidità e nebbia.

Il locale si trova nella stessa direzione che, inconsapevolmente, il mio navigatore automatico aveva già imboccato. Al termine della campagna pavese, un verde piatto sempre conforme a se stesso, verso il delinearsi delle prime colline del piacentino si erge una piccola Babele di evasione. L’albeggiare di tutte le nostre illusioni giovanili, quando bastava alzare la musica per credere in un mondo migliore.

A quei tempi ero una cubista. La migliore del locale, dicevano. Il Metamorfosi aveva un nome evocativo, qualcosa che andava oltre il solito ideale dello sballo ravvicinato un tot al kilo a cui era consono il popolo della notte. Esprimeva già tutto, come se il mio destino avesse voluto venirmi incontro opponendo un cartello fluorescente, fatto di luci al neon, al corso degli eventi che altrimenti sarebbe stato prestabilito: il lavoro al liceo, la rispettabilità sociale, una famiglia, una bella casa. Quel cartello incrociato per caso imprimeva una deviazione estemporanea, quasi una via di fuga obbligatoria, alla prevedibilità di un progetto standard.

(Segue…)

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