(Ovvero:tutto quello che non ci hanno mai detto sulle ORIGINI della Magia)
In principio erano Circe, Eete, Perse e Pasifae, figli del Titano Elios e della Ninfa Perseide. Punto di incontro tra i quattro fratelli: la derivazione titanica dei loro poteri. Punto di frattura con gli dei olimpici: la radice ancestrale e tellurica delle facoltà dei quattro maghi, ben diversa dai poteri innati e spontanei dei pigri dei.
Tutto risale alla guerra tra Titani e dei Olimpici. Lo zio di Circe, il Titano Prometeo, fece dono agli uomini del fuoco, pagando col sacrificio del proprio corpo (il supplizio di venire incatenato a una rupe e di subire la quotidiana divorazione del fegato) l’amore verso il genere umano. Gli dei olimpici non vogliono la libertà della stirpe mortale: la considerano irrilevante come un pugno di polvere al vento, meglio che subisca le avversità di un destino capriccioso, che più la piegherà al dolore, più la renderà sottomessa al loro volere.

Ma non tutti gli dei sono uguali. Circe, figlia della ninfa Perseide e di Elios, il Titano assimilabile al Sole, ha un destino da compiere. Come dea, risulta pressoché invisibile, quasi uno scherzo del destino. È tra di loro la meno avvenente, dotata di una voce umana che al cospetto del suono roboante degli immortali appare stridula, e soprattutto non possiede alcun potere intrinsecamente “plateale”. Laddove i poteri divini sono innati e si compiono senza sforzo.
Circe è invece anomalamente “umana”, perché sente su di se’ il marchio dell’imperfezione che la rende diversa dalla gelida compostezza delle altre divinità. In una parabola di discesa agli inferi e di conseguente acquisizione di consapevolezza, dovrà fare fatica a scoprire le sue facoltà. Sperimentando, sporcandosi le mani, subendo la condanna dell’esilio.
Tra gli dei olimpici, infatti, la conoscenza dell’arte dei farmaci è considerata tabù. Non si può forzare ciò che risulta scritto nel Fato e a cui presiedono Le Moire.
Maneggiare l’arte ambivalente dei “pharmaci” per sovvertire la distanza insormontabile tra dei e uomini è considerato un atto di tracotanza, e in quanto tale punito.

Ma Circe, la ribelle, opera una scelta. Alla stasi noiosa degli immortali olimpici preferisce l’imperfezione umana. Il dado è tratto il giorno in cui si innamora dell’ingrato Glauco: trasformandolo in immortale sfiderà il divieto posto dagli albori tel tempo: non contrastare il volere insondabile delle Moire. Allo stesso modo, la sua ira esploderà incontenibile quando si sentirà soverchiare dalla vanità della ninfa Scilla, trasformandola quasi inconsapevolmente in uno dei peggiori mostri del suo tempo. Per mera, umanissima, invidia.
Il pentimento, il percorso di espiazione che la farà evolvere nella solitudine esattamente come la più contemporanea delle nostre eroine.
Un capolavoro. Scritto con la melodia della spuma marina, riflessi argentei che si stagliano sulla carta come le dita rosate dell’alba nel cielo…. Ma anche un monumento alla pochezza maschile, alla mediocre viltà di certi uomini, gli “altri” diversi da Ulisse. Le donne, le vere dee. Circe, come Medea figlie del Sole (Elios), si trasformano in maghe per contrastare la delusione di una grandezza incompresa
Con una prosa lirica, avvolgente ed onirica, uno stile omerico ma al contempo moderno, la Miller compie il più grande dei miracoli: tenere il lettore incollato alla pagina come se stesse leggendo il miglior best seller degli ultimi Fantasy. Più accattivante di Harry Potter.