LA TRAPPOLA DELLA PERLA NERA

Racconto vincitore del Premio Speciale della GIURIA al TERNI NARNI HORROR FESTIVAL (1.11.2021), Presidente di Giuria Cristiana Astori

Erano le 9.00 di mattina del 30 settembre di quell’anno bisestile. La prima brezza autunnale entrava dalla finestra della cucina, accarezzando la piantina del peperoncino. Ondeggiava sul davanzale con un ritmo cadenzato, le sue lingue di fuoco sembravano grappoli di sangue rappreso, esposti al sole con osceno orgoglio. Di fronte, il tappeto di edera mostrava a singhiozzo le ferite di un vecchio muro. Tra le cicatrici del cemento trasparivano macchie scrostate di intonaco che disvelavano, più a fondo, il rosso vivo dei mattoni nudi. Come in un gioco ad incastro quello scorcio inedito  delle terrazze romane si inseriva tra i tetti e i balconi, creando una passerella aerea sospesa nel vuoto: era lontana l’eco del mare, i colori rotondi degli agrumi e il profumo caldo dei limoni.

Sorseggiando il caffè ancora fumante, la ragazza sfogliò svogliatamente una rivista di moda. Quell’anno il lavoro aveva stentato ad arrivarle, benché le sue forme non lasciassero alcun margine di dubbio: aveva gambe da giraffa e una pelle color ebano che avrebbero conquistato qualunque continente. Ma in questo nuovo Paese, ancora così strano, tutto era governato da logiche indecifrabili. Una moltitudine di regole e burocrazia, parole astruse e consuetudini sorprendenti sembravano ogni volta remarle contro, chissà perchè. La chiave di tutto era il non essersi mai concessa a quelli che detenevano le redini del potere, senza mai sporcarsi le mani. E Shaila, abituata ai colori del suo Paese – dove la gente con le mani ci lavorava davvero – non aveva mai sopportato il grigio melmoso dei soliti compromessi.

Il cupolone rintoccò la mezza. Col tempo aveva imparato a diffidare anche dei vertici di quel Supremo Potere: finti Santi dalle connessioni tentacolari, capaci di vendicarsi quando le cose si mettevano male. Del resto ben sapeva come poteva finire per le straniere. Con un po’ di fortuna, in poco tempo si poteva anche fare carriera, a patto di tapparsi il naso. Se invece buttava male, bastava pochissimo per finire sulla strada, di ricatto in ricatto.

Felice di essersi tenuta lontano dai guai, accarezzò distratta il gatto. Aveva sempre proceduto con prudenza, un piede avanti all’altro, pochi grilli per la testa, mettendo da parte i risparmi sicuri, pochi maledetti ma onesti, come insegnava la tradizione. Non aveva mai creduto ai Vudù del suo Paese, ma sapeva che gli spiriti malvagi si potevano nascondere ovunque. Facendo leva ad esempio sulle numerose invidie, erano sempre pronti a tendere invisibili insidie che dapprima seducevano il loro Ego di modelle, per poi colpire sul più bello. A sangue freddo, senza nemmeno dare il tempo di realizzare.

Ma quella mattina qualcosa sembrava diverso. Forse la malinconia settembrina, quell’aria fresca che tanto assomigliava alla primavera entrandole nelle vene, le stava parlando direttamente al cuore. C’era un senso di rivalsa nell’aria, un sottile impulso di compensazione con l’esito poco brillante della trascorsa estate che le suscitava una strana inquietudine.

Aperto Instagram sul cellulare, vide che aveva ottenuto dei nuovi like, i soliti guardoni inopportuni che bloccò sul nascere, qualche venditrice di fumo che le prometteva improbabili premi, le colleghe più giovani che cercavano di agganciarsi ai suoi contatti, qualche nuovo follower. E poi quel fotografo.

La colpì il profilo austero ed essenziale, diverso da tutti gli altri. Aveva sempre posato per fotografi legati a marchi etnici: nature esuberanti, foreste amazzoniche, spiagge indonesiane, suggestioni tribali, quello era il solito target per cui era richiesta. Fotografie che ritraevano una ridondanza finta e una scontata felicità: come se fosse veramente quella la vita, nei paesi dove la gente neanche aveva gli occhi per piangere. Come se l’essere una modella di colore le desse libero accesso esclusivamente a un certo tipo di lavori, ma non a quelli di un ambiente elitario le cui redini erano tenute da chissà chi e chissà dove.

Dalle foto postate su quel profilo professionale, invece, traspariva qualcosa di nuovo. Severità, cultura, rarefazione. Una ricerca inedita e spasmodica dell’essenziale. Una specie di pulizia interiore condotta lungo il binario di austerità e rigore. Le sue modelle non erano ritratte nelle canoniche pose atletiche, ammiccanti e lascive. Sembravano quasi suore laiche, colte da una specie di bagliore mistico, tanto comunicavano un’ideale mistico di purezza e devozione.

Ne restò colpita. Il fatto che @alphazenith cercasse poi di attirarla con un percorso a spirale, era qualcosa di nuovo e molto insolito. Normalmente i pretendenti si facevano vivi con i soliti complimenti banali, e se proprio si mettevano d’impegno arrivavano persino a formulare appellativi pseudo poetici, metafore limitate come le usurate “pantera nera/ venere africana/ madonna di ebano”. Quelle, fino ad allora erano il massimo delle lusinghe tributate.

La sequenza di immagini postate per ultimo in quel profilo, che la taggavano, sembravano essere una specie di richiamo in codice per attivare il suo radar interiore. Quelle fotografie contenevano una specie di rebus, erano come un misterioso labirinto nel cui cuore si nascondeva un tesoro, per lei appositamente custodito. Tutto era giocato sul binomio bianco e nero. La ricerca della luce era come una lotta contro il soffocamento dell’ombra che incombeva, ma poi i due poli si invertivano, e allora erano le ombre a disegnare fluorescenti arabeschi emergendo dal pozzo di luce sullo sfondo, in una rincorsa finale verso la superficie. Un mandala astratto, vorticoso e rarefatto, che sembrava possedere la chiave della vera bellezza.

L’ultima fotografia raffigurava un cerchio di luce che custodiva al suo interno, prezioso come l’occhio divino, il riflesso diafano di una perla nera.

Contro ogni attrito del suo istinto, ne accettò di slancio l’invito appuntandosene l’indirizzo. Il foglio di carta le tagliò i polpastrelli, tanto se l’era rigirato stretto nella mano.

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Io non li ho mai capiti, quelli che si chiudono in convento. Più una vocazione è forte più si fa sentire, spingendoti a scendere in campo per agire, nel vivo delle cose, a sporcarsi le mani per mondare le coscienze, giù in basso, nel torbido del reale.

La mia vocazione è talmente potente da sentirla densa come lava rovente, la tengo compressa nel cratere del cuore in attesa della giusta scintilla, per farla poi esplodere come zolfo, una minuscola bolla di terrore e di orribile meraviglia. È un’attesa che mi fa fremere, smarginando i confini del visibile e regalandomi visioni psichedeliche. Sorgerà l’eclisse della tolleranza, si apriranno le porte dell’Apocalisse e finalmente inizierà la macabra danza.

Isolarsi tra quattro mura per cantare salmi, celebrando messe e implorando redenzioni? Che senso può avere, quando il male prolifica tra il comune sentire della gente normale e, come la peste, si scava cunicoli generando abiezione?Le figlie di Eva ora si sono trasformate in volgari figlie di puttana: non più madri devote, fedeli mogli senza troppi grilli che umilmente si dedicano sottomesse ad allevare figli.

La bellezza è la nuova droga. La celebrità e la fama sono l’oppio che ne trasforma l’ideale in una banale messa in scena, riducendo a ridicola vetrina persino la messa domenicale.

Odio la vagina, odio l’espressione femminile e il suo fascino viscerale. Odio la vertigine dell’indipendenza, l’ideale dell’emancipazione, la spinta propulsiva che allontana le femmine dalla virile sottomissione, la forza vitale che dalla terra le genera, la sacralità che le racchiude, il mistero che alla vita le lega, il rosso denso del sangue mestruale, il suo odore acre e intensamente carnale. Odio le donne e il loro potere. Odio l’intuizione che del creato le ha investite vestali, connesse con lui e col suo supremo spirito.

La vanità, un vizio capitale.

E chi di vizio colpisce, di vizio perisce.

La sofferenza laverà la colpa. Il serpente si è risvegliato. Avrà spire seducenti, attirandole in campo amico. Come ha fatto un tempo il loro più antico alleato.

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Tutto era pronto.

Un enorme capannone industriale, di quelli per anni dimenticati e adibiti a rimesse, era stato riallestito a studio. Vera avanguardia contemporanea, tubi in acciaio a vista, scale in ferro ridipinte, mattoni che riaffioravano dai muri in oblò irregolari, come voleva la moda d’oltreoceano, quella dei moderni loft di N.Y.

Solo che sui quei muri non erano appesi degli ordinari Andy Warhol. I riquadri nella sequenza dei volti fotografati ritraevano, all’apparenza, gigantografie di Madonne rinascimentali, autentici capolavori dello stile fiorentino. C’era però qualcosa di strano in quell’oscurità che le avvolgeva quasi per intero, lasciandone emergere radi sprazzi di sgomento. Non erano i soliti volti diafani, colti nelle loro più angelicate espressioni. L’angoscia prevaleva sulla devozione. Il terrore sulla fede. Lo stupore inorridito sull’umile e ingenuo sguardo devoto.

Aguzzando l’intuito per leggere dentro l’oscurità se ne poteva ascoltare il sottofondo, il tappeto di fango scagliato sulle vittime che ne soffocava il dolore, spezzandolo nel punto più alto del culmine. L’urlo strozzato nell’agonia, il corpo profanato, il terrore più disperato.

Erano ritratti fotografici dallo sguardo allucinato, un delirio di gradazioni violente che contrastava con l’intenzione originale, di purezza delicata e astratta bellezza. Nell’oscurità, le varie cornici che ne separavano i volti scintillavano di un rosso sangue umano, ancora vivo, solo a tratti già rappreso.

Solo avvicinandosi con coraggio, e aguzzando la vista per leggere l’inverosimile, ci si poteva accorgere che quelle carnagioni così esangui, altro non erano che tessuti umani chirurgicamente asportati per essere immortalati sulla pellicola. Tanti piccoli tasselli di tegumenti femminili ricomposti con meticolosità da mosaico e rigore maniacale. Gli occhi erano rivolti verso l’alto, ma imploravano l’abisso, ridestando ciò che di più orrido potesse mai sgorgare. In quella desolata metamorfosi le Madonne si erano tramutate in orribili Erinni che urlavano tacitamente vendetta, i loro capelli di angeli trasformati in quelli di spettri dell’oltretomba.

A uno a uno erano stati recisi, per essere incollati alla pellicola, i loro scalpi gettati via, come prede di guerra. Tutt’attorno, il silenzio dei corpi riemergeva dalla penombra. Se ne percepiva la lunga eco del tormento, le sordide urla, le vane implorazioni di misericordia, i latrati sanguinanti dell’ultimo respiro.

Odore di marcio, acre e pungente. Fotografie appese come panni stesi, fresche di camera oscura, ne ritraevano il momento della morte. Il volto sgomento, lo sfinimento e la supplica, la disperata preghiera. Era in quel punto estremo che l’ombra non lasciava più scampo.

Al centro della fronte, come un oscuro diamante, su ogni volto riluceva una perla nera, coronata da un ematoma, di un cuore ancora pulsante.

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