Avanzavano nel buio della sera come impazziti, un fuoco cieco ne ottenebrava gli occhi, la furia ne guidava sordidamente le membra. Negli arti un movimento automatico e compulsivo, il volto completamente inespressivo, come paralizzato da un’unica parola, ossessiva più di un macabro mantra. Erano stati programmati per uccidere, seminando distruzione e panico.
Li precedeva il più immenso tra loro, ponendosi a capo di una rivoluzione di schiavi che non erano tuttavia in grado di rammentare chi fosse stato, un tempo, il padrone che li aveva tiranneggiati.
Avevano smarrito la memoria e, con essa, qualsiasi residuo di ragione. Ignari del proprio passato e persino della propria origine, vagavano in preda a una furia cieca, come vasi vuoti abitati da demoni.
Forse, tutto dipendeva dalla scritta che portavano incisa sulla fronte. Una potente calamita che si era inconsapevolmente tramutata in una fonte di sciagura. Sembrava quasi un marchio simbolico, un segno tatuato a guisa di geroglifico che i giganti in terracotta portavano inciso come una parola d’ordine, un segnale in codice che li aveva programmati a livello subliminale. Un’unica parola, composta da due sole lettere.
Chi fosse stato in grado di decifrarne gli ideogrammi, vi avrebbe riconosciuto la mem e la tav, le consonanti poste rispettivamente al centro e alla fine dell’alfabeto sacro. Ma poiché i giganti vagavano liberi nel quartiere di Josefov, non fu difficile per i suoi abitanti sciogliere in fretta l’enigma.
Per un errore di programmazione, una dimenticanza o una mera distrazione, recavano incisa la parola “Met”, e come fedeli esecutori di quel sordido imperativo erano portatori di morte. Chiunque avesse fatto in tempo a decifrarne il significato, non avrebbe avuto scampo.
Sfondavano le porte delle case servendosi dei loro corpi come arieti, entravano nelle dimore strappando i pargoli dalle braccia delle madri, per poi ridurre tutto a un pugno di macerie.
I pochi che da lontano riuscirono ad avvertire il pericolo fecero in tempo a mettersi in fuga.
Una sola, sapevano, poteva essere la meta.
«Svelti: diretti alla Sinagoga. Solo Lui è in grado di salvarci».
Fu una corsa contro il tempo.
Prima che tutto fosse perduto, bisognava porre fine a quello scempio.
Entrarono dalla porta laterale del Tempio, nel bel mezzo della funzione serale del sabato, interrompendo la celebrazione. Al rabbino, le parole morirono sulla bocca come farfalle catturate da un vortice oscuro.
Il Salmo Ventinove non fu mai terminato.
Rimase così in sospeso, nel bel mezzo del canto, in una parentesi dilatata sul tempo, per poi ricucirsi il giorno dopo, quando tutto fu lasciato alle spalle come polvere gettata al vento.

*****
Nel piccolo quartiere, il campanile della chiesa di San Nicola suonò le otto di mattina. Era l’alba di una pacifica domenica settembrina, da godersi passeggiando lungo i colli di Mala Strana per scorgere dall’alto, al di là della Moldava, l’antico borgo della città, tra il rosseggiare dei suoi alberi e il giallo oro che ne ricopriva i tappeti d’erba, prima che la morsa tagliente dell’inverno dipingesse tutto di un ghiaccio monocromo.
Il fascino velato della capitale boema decantava proprio in quei giorni, tra gli ultimi aneliti d’estate e i primi brividi d’autunno, anche se era nel cuore di ottobre, quando la coltre di nebbia saliva dal ponte San Carlo fino a spandersi su tutta la città vecchia, che il mistero di Praga poteva cogliersi nella sua pienezza. Le guglie delle chiese divenivano allora argentee, gli ingranaggi degli orologi sulle facciate parevano fondersi con i cristalli boemi che li decoravano e il ghiaccio che ne merlava i tetti, la neve che scendeva soffice regalava un’aurea magica a quell’insieme stratificato di case, castelli, chiese e culture al quale solo il suo mantello conferiva uniformità.

Eppure, quella mattina, qualcosa sembrava diverso.
Le notizie del giornale lasciavano presagire poco di buono in quell’inizio d’autunno. Un’evocazione del passato, una storia lugubre che sembrava riesumata dalla pietra dei cimiteri che costellavano l’antico borgo antistante di Mala Strana e, in particolare, lo storico quartiere di Josefov. Era proprio lì, nel cimitero dell’ex ghetto adiacente alla sinagoga vecchia-nuova, che si era svolto tutto, circa due secoli prima.
Johannes Peruts ripiegò il giornale con un profondo sospiro mentre, assorto nei suoi pensieri, scuoteva il capo togliendosi gli occhiali per sfregarsi gli occhi. Conosceva bene quella storia che, narrando le alterne vicende di un odio razziale sempre latente, aveva fatto strage dei suoi antenati costringendo i suoi nonni a convertirsi, per salvarsi la pelle. Di marrani era piena la penisola iberica, ma anche i Balcani non erano rimasti estranei al fenomeno. Si dividevano tra coloro che, abiurando, avevano realmente tradito l’antica Alleanza e la storia del popolo eletto e quanti, invece, spinti dall’esigenza disperata di salvarsi la pelle, continuavano in segreto a tramandarsi l’antico sapere fingendo fedeltà al nuovo credo.
Quel giorno il “Panorama des Universums” pubblicava un articolo del tutto peculiare sul tema. La firma gli era nota: il giornalista Franz Klutshak era stato un tempo il suo miglior amico.
Le reliquie inquietanti: rinvenuti nei cocci in argilla i frammenti rivelatori della leggenda.
Così recitava il titolo, seguito da un occhiello esplicativo.
« (…) In una remota soffitta della sinagoga Pinkas sono stati ritrovati i resti di un antico manufatto che avrebbe le parvenze di un automa. Ricomponendo i cocci, gli archeologi hanno dato forma alla mano ciclopica di quello che parrebbe corrispondere all’ultimo, leggendario, Golem di Praga. Il rabbino Rav Yehudah Loew ne avrebbe custodito gelosamente gli ultimi resti per sottrarli al degrado del tempo.”
Sobbalzò. In effetti, lui che era un amante della letteratura, aveva notato solo in quel momento che le considerazioni che ne seguivano, brillantemente esposte dal giornalista, non erano affatto infondate. L’intuizione era folgorante. Quella storia aveva tantissime, troppe analogie con il recente successo del capolavoro della scrittrice Mary Shelley.
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