L’alcova del Mistero

In un’ambientazione gotica e densa di mistero, tra le ombre della notte si consumano giochi pericolosi. Inizia così il giallo più conturbante dell’estate della scrittrice Silvia Alonso

L’altare che si ergeva in mezzo all’immensa stanza era pronto. Le affusolate dita delle luci si espandevano maestose dai candelabri a gambo lungo, protesi come i rami di un albero. Gli spazi dilatati si alternavano tra gli oggetti inanimati e le loro sagome proiettate sui muri, rinchiudendo in una grande gabbia anche il tempo che, tra le loro braccia, sembrava restare sospeso. Le candele ardevano, disegnando strani giochi d’ombre. Era un rincorrersi vorticoso tra i contorni delle cose che si perdevano nel buio in una gara degli opposti, dove la notte strappava lembi di speranza al giorno. Il vuoto si mangiava la luce inghiottendola nel suo pozzo, e lei ogni volta riemergeva vittoriosa dal fondo, riguadagnando terreno, tirando un breve respiro con le sue flebili fiammelle.

In successione tra loro, le maschere se ne stavano distese sull’altare come pronte al sacrificio estremo, assieme agli strumenti del piacere. Illuminate dalla penombra, si susseguivano disposte in fila, meticolosamente ordinate secondo un preciso criterio di ascensione. C’era la maschera nera in pelle, la più severa, da dominatrice, che non lasciava nessuno spazio all’immaginazione. Poi quella in carbonio fatta di merletti, un pizzo rigido con due maestose ali di drago poste ai lati degli occhi; e poi ancora quella a mezzaluna, che in quel buio senza stelle sembrava volersi prendere beffa d’ogni ombra, lanciando ribelle la sfida di uno sguardo che per metà tranciava il volto. Nel ripiano più in basso, sull’inginocchiatoio in velluto rosso, erano invece riposte le fruste. Quelle più soffici, terminanti in sottili lembi di pelle, e quelle via via sempre più pesanti. Addirittura quelle chiodate.

C’erano infine oggetti dalle funzioni più bizzarre e oscure, mischiati ad altri ampiamente noti all’immaginario comune. Così i frustini e i morsi per i cavalli, esibiti con disinvoltura insieme alle manette e alle corde. L’alchimia di quella notte avrebbe forse permesso di trasformare quei singoli strumenti di tortura, che giacevano inermi, in attivi organi di piacere. Tutto era rimesso all’arte misteriosa di chi li avrebbe saputi maneggiare a dovere.

Soprattutto, c’erano i vestiti che da lì a poco la Mistress avrebbe indossato. Una tuta nera in lattex che lasciava intravedere solo qualche lembo di pelle, concessione di un piacere fisico negato ed elargito solo a livello mentale, come esigevano i suoi pochi eletti. Erano gli unici frammenti vivi di un rituale astratto, e per contrasto emanavano un prepotente profumo di vita che saturava l’aria. Il resto era incenso. Nuvole di fumo liberate da un cratere invisibile che si perdevano nell’aria, trasformando quel luogo in una valle di perdizione fuori dal tempo.

Qualcuno bussò alla porta. Si avvertì un tocco esile, un fondo di esitazione che poteva far credere a un errore. La Mistress fece cenno alla ragazza di accorrere, non bisognava lasciare alla preda alcun margine di ripensamento. Con passo deciso, com’era stata addestrata, la ragazza si diresse verso la porta, avvolta in una tunica color porpora che le conferiva un’aria ieratica.

Al vederselo davanti, il respiro le si fermò in petto, come se di colpo le si fosse fatto il vuoto e restasse lì, impotente, in piena apnea. Un uomo giovane, alto, atletico e di un pallore niveo, un viso da quadro rinascimentale che difficilmente si sarebbe potuto definire mortale. Che fosse un angelo precipitato dritto all’inferno, era la spiegazione migliore.

Lateralmente, una lama di luce lo illuminava di traverso come prendendo vita da una tela barocca, facendone risaltare per contrasto il volto slavato, la pelle diafana, lo sguardo perso nell’infinito. Un pallore che, al riflesso delle candele, appariva come esangue. La vita gli era volata via distrattamente, e ora il suo corpo da Adone si trascinava senz’anima in quei vuoti anfratti di perdizione.

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La ragazza lo accolse con un cenno del capo. Avrebbero percorso insieme, lentamente, il sentiero cosparso di petali di rose che lo avrebbe condotto sino alle spine della Mistress e alle sue stanze segrete. Quando finalmente i due furono l’uno al cospetto dell’altra, la ragazza si fece da parte. Mistress e schiavo annuirono, lanciandosi sguardi d’intesa in assoluto silenzio, come per un antico, segreto patto. Con una mossa a sorpresa, scelse lui la prima maschera da fare indossare alla sua Signora. Berenice, come si chiamava in gergo tecnico: era la più raffinata che le lasciava trasparire il volto dalla metà in giù, permettendo la vista delle labbra voluttuose, bramose di sangue.

Poi fu la volta della Mistress. Passò alla ragazza una benda nera con l’ordine di coprirgli gli occhi solo quando sarebbe giunto il momento finale, e lei glielo avesse ordinato. Lo schiavo l’avrebbe dovuta guardare dritto nelle pupille fino all’ultimo respiro, prima che tutto diventasse nero, confusione, magma indistinto. Prima di consegnarlo, per un istante o per sempre, al Tutto oscuro da dove lo avrebbe poi strappato solo nell’istante più estremo, afferrandolo dalla morsa tagliente che lo avrebbe penetrato fino alle viscere, col suo colpo netto e brutale.

La ragazza fece un respiro profondo. Un senso improvviso di vertigine la pervase, facendole provare brividi per tutta la schiena, ma ormai non poteva più tirarsi indietro. Lo condusse all’enorme croce di legno posta al lato dell’altare, ma quando fu sul punto di legargli i polsi nelle fibbie di pelle che pendevano sciolte, la Mistress la interruppe. La sua voce tagliò l’aria densa.

«Tzimtzum. Kli. Shefa. Hashpoah. Raz.»

Seguì una lunga pausa. La Mistress respirò a fondo, tre volte di seguito, poi, dal mantice del suo diaframma contratto, buttò fuori l’aria. Se ne potevano intravedere dalla maschera gli occhi riversi, abbandonati in quell’invocazione oscura. Stava entrando in trance, e quella era forse la formula segreta usata per trattenere il tempo, aggirandolo a suo piacimento. L’energia circostante era così forte e densa che qualche candela si spense. Il buio quasi totale aveva preso il sopravvento.

Doveva essere un cliente molto speciale per fare ricorso a quelle strane formule, sebbene nulla nei gesti della Mistress tradisse una qualche emozione. Eppure, uno strisciante desiderio bruciava tra loro, silenzioso, trasudando di soppiatto dai loro occhi, se ne percepiva l’intensità rovente e pericolosa, voluttuosa come le spire della morte. Non aveva mai messo piede in quella terra desolata fatta di freddo godimento, dove un ghiaccio siderale pareva dover regnare, incontrastato, per sempre.

Uscendo da quello stato di alterazione, la Mistress si rivolse alla ragazza.

«Procederò con la pratica imperium. Per ogni mia azione dovrai contare fino a sette, suddividendo ogni mossa in ulteriori frammenti di sette. Dovrai tenere fisso il tuo pensiero nello sforzo di rendere liquido il tempo, per poi versarlo in un vaso più ampio, diluendolo goccia a goccia.»

«Eseguo, Signora.»

Con una lentezza esasperante che aveva dell’ipnotico, la ragazza procedette a brevi passi, dandosi un ritmo via via più dilatato, entrando in una spirale di pause e sospensioni, come risucchiata dal vuoto. Poi, una volta giunta davanti al tavolino, appoggiò dinanzi a lei cinque candele, e le disposte a raggiera, in modo da disegnare una stella. Era il segnale.

Dopo aver legato lo schiavo alla croce di legno, la Mistress iniziò a scandire altre strane parole.

«Ohr! Sia luce.»

La cera bollente iniziò a colare dall’alto, lattiginosa e fluida su quel corpo marmoreo, entrandogli nelle pieghe dei muscoli per riempirne le scolpite concavità. Qualche sparuta goccia si posò sul torso nudo, per poi versarsi direttamente sui rosei capezzoli e farlo fremere di dolore e al contempo ingoiare i sussurri inconfessabili di un sordido piacere. Un intreccio indistinto le cui estremità risultavano sigillate come in un serpente alchemico, senza alcuna soluzione di continuità. Quel simbolo implicito, occulto riferimento all’infinito, regnava sovrano in quelle oscure stanze, dove tutto pareva venir inghiottito e rifluire nel nome di un piacere anarchico e senza tempo.

Il dolore montava, raggiungeva l’apogeo per poi calare, trasformandosi nell’acme del piacere.

Pronunciando un’antica formula, gli incise sulla cera appena condensata il suo sigillo: una stella rovesciata, con la punta riversa.

«Kata ton daimona eautoy. Da adesso io sarò i tuoi demoni. E i tuoi demoni prenderanno vita in me. Non potrai superare il cerchio del Serpente, fino a quando non li avrai sciolti col fuoco. Sentirai bruciare dentro di te questo dolore che trasformerà i tuoi desideri più oscuri. Solo allora te ne libererai, rendendoli sublimi.»

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