«The night of darkness» _ Halloween all’italiana 2020

Era il 31 ottobre annus domini 1666 e le forze oscure erano allineate sull’asse delle tenebre.

Chiusa in una stretta gola tra le scoscese pareti di roccia, la valle di Brasov ombreggiava tra i riflessi cerulei del cuore dell’autunno. Gli sparuti raggi di sole che si incuneavano a fatica tra i rami dei faggi e le betulle creavano un incendio di foglie cui solo gli abeti riuscivano a sottrarsi. Tutto appariva sospeso in una parentesi di attesa al cui centro si ergeva sovrana, sulla sommità di un’altura come in bilico sul nulla, la fortezza.

Era una costruzione severa quanto le torri aguzze che le conferivano un aspetto inespugnabile. Solo nella curva sinistra dell’ala residenziale quel luogo così inospitale assumeva un illusorio aspetto abitabile. Al centro del portone d’ingresso in ferro battuto risplendeva lo Stemma. Una croce latina color porpora sovrastava il cerchio di un drago dorato.

Il personale di servizio scandiva le proprie incombenze quotidiane muovendosi come in bilico su un pavimento di vetro, i loro gesti scivolavano silenti seguendo il muto succedersi di notte e giorno: tutto doveva essere svolto prima del tramonto, momento topico del Suo risveglio. Ad ogni alba il cacciatore alloggiato nell’adiacente rimessa svegliava il suo falcone per procurare al Conte prede fresche di giornata, animali destinati a placarne per qualche ora l’eterna sete, prima che egli stesso s’immergesse come un caimano nella notte per consumarvi efferate atrocità.

Sul fare del Vespro, al primo sorgere di Venere, avrebbe fatto di loro il suo pasto rituale. Una lenta agonia di cui avrebbe assaporato ogni fremito, senza perdersi neanche una stilla del nettare purpureo esondato e dei suoi riflessi d’ametista che rilucevano al raggio lunare, mentre sui loro volti esangui le pupille assumevano la fissità dell’espressione estrema della morte.

Poi, prima che in loro si fosse spento l’ultimo battito, gli avrebbe finalmente strappato il cuore, per deporlo nella coppa d’argento appartenuta alla sua illustre stirpe.

Quella coppa era il suo Graal, ma solo il sangue umano avrebbe generato la suprema alchimia di memoria egizia, l’elisir di lunga vita che tanto lo turbava. Nonostante i secoli di studio, non era mai riuscito a trovare la chiave per risvegliare il potere del Drago, affinché quella creatura mitologica, simbolo del suo antico casato, risalisse la croce che lo sovrastava, sormontandone la sommità in un’aurea alchemica. Quello sarebbe stato il segno, per lui, di un nuovo ciclo immortale. L’Eureka, l’Acmè di un sublime, indicibile piacere.

Era assorto nei suoi pensieri quando la finestra della stanza della torre più alta dove aveva appena consumato il suo primo scempio si aprì di scatto. Un vento gelido gli pietrificò le ossa e un vortice di grandine lo strinse nelle spire asfissianti di un gigantesco serpente che non gli lasciava scampo.

Si ritrovò precipitato in una terra di nessuno che si estendeva oltre il tempo, oltre il volere di Ananche e Thanatos. Intorno a lui, un deserto di cenere e pietra giaceva sotto lo sguardo metallico di una luna di ghiaccio. Capì di trovarsi al centro di un cratere di ossa umane, laddove l’odore acre e marcescente del sangue non gli concedeva tregua, mantenendolo lucido in un’agonia straziante.

Sentì uno stridere trattenuto, un lamento remoto, un tanfo di marciume che si faceva stagnante in una poltiglia che ribolliva putrescente.

Poi, un’invisibile lama di sangue risvegliò il vento. Al fruscio dei rovi sugli sterpi, uno sciame di spine prese la forma di un cono di ombre.

Si muovevano tenendosi per mano come spettri orfici di un rito di baccanti, la loro danza era scandita dal ritmo di tamburo, le orbite oculari protese verso la notte, le teste riverse all’indietro invocavano lingue mai udite, emettendo geroglifici sonori che risvegliarono un dio oscuro.

Quando caddero in preda al delirio, si avvicinò il sibilo del serpente, le spire della sua lunga coda si avvolsero in ellissi concentriche che li imprigionò in un cerchio di fuoco. Al suo centro, una forza centripeta eruttò in un vortice implosivo che, sprofondando nell’abisso, formò un occhio di lava e magma oscuro. Il suo cupo ruggito era un idioma disumano.

– «Ombre di cenere e polvere, l’anti-tempo si è risvegliato dall’abisso. Tutto è ormai pronto. Ma l’occhio oscuro esige un’ultima prova. Il Serpente Piumato prenderà forma solo dal sacrificio del Drago. Sangue reale sarà versato in pegno all’immortalità. È questa la forza occulta dell’ultimo Graal. Aleppe, Pape Satan»

Lo sciame delle ombre si fece allora più fitto fino a quando gli si accalcarono tutte addosso intonando il Mantra di Morte. Coi loro artigli famelici di belve notturne lo lacerarono a brandelli, riducendone le vesti a ragnatele. Le loro fauci di pipistrello lo smembrarono a morsi fino a ridurlo a poltiglia informe, un mucchio di viscere ed ossa da cui cavarono via prima gli occhi per poi strappargli la lingua. Per ultimo, lasciarono gli arti.

Lo divorarono ancora vivo, fino a che nulla di lui poteva più definirsi umano; nemmeno il cuore, che lui era solito lasciare intatto alle sue prede, fu risparmiato da quello strazio.

Lo scempio di ogni sua parte poteva dirsi pressoché compiuto quando giunse il momento finale. Il sacrificio supremo dell’ultimo smembramento spettava ora al Serpente Piumato.

Gli si avvicinò, e con un solo colpo di pugnale gli staccò dal collo la testa ormai quasi completamente scarnificata che portò a sé ancora grondante di sangue. Aspettò dunque che l’oscurità raggiungesse il suo apice, e solo allora gli divelse il cranio per sradicarne il prezioso contenuto.

Ne estrasse la materia grigia di una polpa spugnosa. Sotto bagliore lunare, nella coppa d’argento verso l’abisso libata, il prezioso frammento a forma di ghianda riluceva come una pepita. Era il piccolo Graal, e in lui risiedeva l’immortalità.

Dall’occhio del cratere tuonò l’ora zero del nono mese astrale. Era quello l’inizio della nuova fine, e aveva la forma di una spirale.

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