SOLANGE… un’amicizia fuori dal tempo – Racconto finalista al premio letterario internazionale Giovanni Bertacchi-

La sirena del traghetto tirò un lungo, trionfante suono. Un respiro di pancia, assomigliava a quello di un oboe: pieno, rotondo, fiero. Era il segnale: ero arrivata. Ho sentito le narici pervase dall’intenso, inconfondibile profumo dell’isola. Prima ancora che riuscissi a mettere piede sulla terraferma mi stava dando il suo miglior benvenuto. Un profumo ricco di fiori esotici e frutta matura, aspro e dolce allo stesso tempo: cedri e fichi, bouganville, gelsomini, iris e liulim. Tutto era un tripudio di colori maestosi, suoni vivaci, gesti scanzonati. Come amplificato dal sole di metà luglio. Il sole del Sud che illuminava il continuo affaccendarsi dei manovali del porto, le urla dei bambini e il via vai indaffarato della gente di mare. Scugnizzi di strada con degli occhi neri fissavano il mio pallore con aria incuriosita, pareva volessero mettermi a nudo, tirandomi fuori l’anima. Solo in quel momento ho sentito che mi stavo togliendo di dosso, finalmente, la mia aria cittadina, che mi stava scivolando via come un vestito ormai liso, del tutto inadeguato a quell’atmosfera libera, anarchica e un po’ zingara.

Mi riempii di quell’emozione che da tempo avevo dimenticato, archiviata nello scrigno dei ricordi. Un’era felice ormai lontana che improvvisamente stava riprendendo vita, come se niente da allora fosse cambiato.

Ero pervasa dalla stessa sensazione di quando, da ragazza, arrivavo sull’isola con la mia famiglia. La mia isola, la nostra isola. Allora, il suono della sirena era come quello della ricreazione a scuola, ma più forte e maestoso, perché segnava l’inizio della vacanza. Era trascorso un anno ed ero impaziente di rivedere i miei amici. Chissà come erano cambiati, chissà come mi avrebbero trovata, se la magia che si era creata tra noi le estati precedenti sarebbe riuscita, ancora una volta, a rendere speciali quelle nuove vacanze. Trascorrevo interminabili inverni china sui libri, in compagnia dei dizionari di greco, a sognare ad occhi aperti quei brevi giorni d’estate, rendendoli infiniti nella mia immaginazione, dilatandoli come un elastico che non si spezza mai e trasformandoli in un vaso da cui attingere sempre nuove energie e nuovi sogni. E poi finalmente, ecco: era di nuovo estate e la magia ricominciava dove l’avevo lasciata un anno prima, sospesa come una promessa a fior di labbra.

Perché Ischia manteneva sempre le sue promesse, gli amori sull’isola erano gioiosi e intensi come le canzoni melodiche napoletane, un giorno di vacanza in quel mare ne valeva più di mille trascorsi nelle grigie brume padane.

Ma quel giorno il suono della sirena veniva a dirmi un’altra cosa. Dovevo fare i conti con la realtà, non ero più in vacanza con la mia famiglia, non avevo più sedici anni come l’ultima volta.

L’ultima volta che, me lo ricordavo ancora come se fosse stato ieri, girandomi dal traghetto per rivolgere un ultimo sguardo all’isola, avevo salutato la mia estate con un lungo addio, gli occhi ricolmi di lacrime, il cuore traboccante di commozione. Perché in qualche angolo remoto di me già sapevo che per molto tempo non l’avrei più rivista. Quel saluto avrebbe segnato il discrimine tra l’adolescenza e l’età adulta, e inconsapevolmente stavo dicendo addio alla mia gioventù. Al di là di quel confine, un lungo autunno sarebbe sopraggiunto. Un gelo che non sarebbe stato facile scrollarsi di dosso. Come la malattia improvvisa di mio padre, poi la morte, quella che non bussa, non ti chiede il permesso di entrare a tradimento a spezzare in due la tua vita.

Avevo solo diciassette anni. Senza di lui Ischia non avrebbe più avuto senso. L’isola gli aveva trattenuto un pezzo di anima, la parte più gioiosa e spensierata di quell’uomo generalmente severo e introverso viveva nelle acque cristalline di quel mare, circondata da una natura rigogliosa e da un perenne sole. Ritornare dopo vent’anni significava riabbracciare quel sorriso, lasciarsi indietro il dolore e permettere solo alla dolcezza del ricordo di farsi strada nel mio cuore, come un ruscello che trovava naturalmente la sua via, senza più strappi, senza alcuna lacerazione. Solo il raggio del passato che poteva confluire nel presente per illuminarlo.

Trovare quel ricordo significava ritrovare me stessa. O almeno, quel che restava della ragazza che una volta viveva di arte, sogni e danza, nell’avvocato d’affari in cui gli anni mi avevano trasformata. Chi di noi due era l’inquilina? Quale la vera me? Forse solo lo sguardo sincero di una vera amica avrebbe potuto dirmelo, scrostando l’intonaco di una facciata di comodo che mi portavo dietro da troppo tempo. Come quel mio fidanzato così perbene con cui ormai l’abitudine aveva preso il sopravvento su ogni slancio, e tutto era un rimando a un futuro incerto perché un passo in avanti era azzardato, e uno indietro non se ne aveva il coraggio.

Ma io ora ero lì, e non potevo fare a meno di pensare alla mia amica che, quella stessa ultima estate, avevo abbracciato prima di lasciare.

“Ti starò sempre vicina, lo sai. Ti voglio bene, Solange”.

“Anch’io ti voglio bene, Lidia”.

Aveva solo un anno più di me. Ed era incinta di tre mesi.

Sapevo che aveva avuto la bambina, che questa bambina era nel frattempo cresciuta, che andava a scuola, che aveva fatto la prima comunione e poi… più niente. I primi anni erano trascorsi a scriverci interminabili lettere su ogni dettaglio delle nostre rispettive vite, ormai così diverse. Io con l’Università, le ansie degli esami, una vita che sembrava sempre tra parentesi perché prima c’erano altre urgenze, altre ambizioni cui dare la priorità. Lei invece già mamma, le poppate, il cambio dei pannolini, il lavoro in negozio, le prime liti col marito, poi l’indifferenza, poi i tradimenti, e infine la rassegnazione.

Solange era donna, Solange era mamma, Solange era moglie. Un anno di differenza ci separava, ma l’abisso che ormai si frapponeva tra noi non era solo segnato dal divario delle nostre vite, bensì da una specie di confine invisibile che segnava il destino di due mondi opposti, il Nord e il Sud.

Se ne andava in giro scalza per il paesino di Ischia, i suoi capelli biondissimi, così strani a quelle latitudini, sembravano un faro nella notte. Sempre così semplice, mai un filo di malizia, il viso acqua e sapone, i capelli perennemente imprigionati in una coda di cavallo. Sembravo praticamente il suo opposto: mi piacevano gli abiti alla moda e soprattutto adoravo truccarmi, ma possedevo un’ingenuità da collegiale a dir poco imbarazzante. Realizzare che una ragazza apparentemente così semplice fosse la leader indiscussa del gruppo suscitò in me uno strano richiamo, come una carica opposta che di colpo si stava trasformando in calamita. Con l’effetto che prima ancora di conoscerla ero già affascinata da questa ragazza il cui parere era fondamentale per le decisioni su come trascorrere le serate, in gelateria piuttosto che al cinema o alle varie sagre di paese. Mentre lei semplicemente mi ignorava, considerandomi troppo “milanese” per i suoi gusti schietti e i modi diretti. Ma un giorno fu inevitabile, il destino ci costrinse a incontrarci.

Me la ritrovai senza preavviso nella hall dell’albergo dove io e la mia famiglia eravamo alloggiati. Con quei suoi enormi occhioni azzurri, l’aria sempre indaffarata, neanche uno spiraglio per il minimo cenno di civetteria. La bellezza gli era capitata suo malgrado, senza che lei nel frattempo avesse il tempo di accorgersene. Capii subito che la nostra diversità ci avrebbe reso uniche.

Oscar dice che gli dispiace assai, glielo riferisci a sorrete? Del resto chillo è nu poco na testa di cavolo. Chi lo capisce è nu santo! Però in fondo non è cattivo. Non lo vuole ammettere ma io lo so: sta nnamurato. Tocca a noi due mettere na buona parola, prima che si appiccichino nuovamente.

Parlava di suo fratello maggiore, che a mia insaputa si era innamorato di mia sorella minore, rendendoci in pratica come due “cognate acquisite”. Non si poteva perciò restare indifferenti a quell’invisibile legame di parentela che ci imponeva implicitamente il dovere di agire per il loro bene, e soprattutto per la nostra pace domestica che ne avrebbe beneficiato.

– E perché mai dovrebbero incollarsi se hanno litigato?

Spalancò gli occhi, come se non volesse credermi. Poi scoppiò in una fragorosa risata. A stento riusciva a trattenere le lacrime.

– Ma allora è vero che stai sempre sulla nuvoletta! È un modo di dire: appiccicarsi non significa attaccarsi con la colla, ma litigare

Risi anch’io. Fui subito certa che, con lei al mio fianco, tutto sarebbe stato diverso. Mi avrebbe spiegato come si baciava un ragazzo la prima volta, che scuse raccontare ai genitori quando la sera si faceva un po’ più tardi, come copiare un compito in classe senza farsi beccare. O, nel mio caso, come rendersi simpatica alla classe passando le brutte copie dei compiti, come si fuma la prima sigaretta senza tossire, come fingersi ammalata se in famiglia qualcosa va storto. Insomma: ce la raccontavamo dalla mattina alla sera. Io con la mia innocenza travestita da ragazza sofisticata, lei con la sua maturità travestita da innocenza. Sulla nostra amicizia, nessuno avrebbe mai scommesso neanche un soldo bucato. E infatti preferivamo metterci al riparo dagli sguardi degli adulti, che in noi vedevano una specie di coppia male assortita. Ci piaceva fingere di vederci di nascosto, come se il nostro fosse un legame proibito, sulla spiaggia dagli scogli bianchi, o negli angoli remoti del porto, dove potevamo raccontarci le nostre cose, ascoltare la stessa musica con le cuffie, scrivere sui reciproci diari segreti.

Tutti ricordi che quel giorno, dopo anni, mentre la nave attraccava nel porto, mi si stavano di nuovo affacciando alla memoria con un ritmo incalzante, affollati e veloci come un film proiettato solo per me. Dovevo correre alla sua ricerca.

Avevo poche informazioni sul suo conto, nonostante Facebook e internet ci illudano di tenerci in contatto col mondo, ma in coerenza col suo essere schiva, Solange non aveva lasciato alcuna traccia di sé sui cosiddetti social. Eppure, una volta arrivata, sapevo che potevo farne a meno, tutto sommato l’isola era rimasta la stessa di vent’anni prima, dove la rete “sociale” principale era il contatto vero tra la gente del posto. Sarebbe bastato domandare alla persona giusta, e tutto si sarebbe risolto.

Chiesi prima al bar principale, che mi rimbalzò alla giornalaia, e da lì feci il giro di tutti i negozi del centro. Bussando di bottega in bottega a chiedere notizie di una fantomatica ragazza bionda che ormai sembrava più il frutto della mia immaginazione che la realtà del mio passato. Fino a quando, dalla fornaia, seppi con certezza che il ricordo vivo della mia amica non era solo un miraggio di un ricordo sfuocato. Nelle mie mani, su un pezzo di carta sgualcito, ero finalmente riuscita a scrivere l’indirizzo di dove potevo trovarla.

Ricordo quell’esodo sul lungo mare che sembrava dilatarsi all’infinito sotto ai miei piedi, la strada squamarsi sotto al sole di luglio. Non un alito di vento. Eppure era da tempo che non mi sentivo così bella, piena della mia anima mediterranea. Lo spirito degli automobilisti non tardò a confermarmelo, e io camminavo su quella strada colma di aspettative, come quando ero ragazza.

Finalmente giunsi al negozio dove sembrava lavorasse. Mi feci coraggio ed entrai. Il ragazzo alla cassa mi accolse guardingo.

– La signora desidera?

– Cerco Solange, sono un’amica di vecchia data, mi hanno detto che l’avrei potuta trovare qui.

– Un attimo, prego.

Scomparve da dietro a una porta che immetteva in una seconda stanza.

Cinque minuti. Il tempo di specchiarmi nel riflesso degli acciai splendenti del negozio, e magari ripensarci. Potevo fare come nelle porte girevoli, ritornando per sempre da dove ero venuta, come un fantasma del passato. Non ero nemmeno sicura che, in caso contrario, mi avrebbe riconosciuta. Ci saremmo forse trovate nell’imbarazzo abissale di non sapere più cosa dirci, noi che trascorrevamo gli interi pomeriggi chiacchierando di tutto e di niente.

Ma di colpo la porta si aprì. Restai in silenzio, come di sasso. Non poteva essere. Le lancette dell’orologio segnavano le 16.00 del venti luglio del Duemilaetredici, eppure ero convinta di essere precipitata di colpo a vent’anni prima. Gli stessi occhi, gli stessi capelli. Lo stesso sguardo deciso, di chi ha cose serie per la testa, e non perde tempo dietro ai gingilli da femmina. Lo stesso sorriso disarmante.

Davanti a me c’era Solange, come quando l’avevo lasciata. Ma non era veramente lei.

– Ciao. Sono Lidia. L’amica della mamma. Non so se ti ha mai parlato di me.

– Sono Lidia anch’io…

Non sono riuscita trattenermi. La commozione sul mio volto ha impresso i segni di un’emozione troppo forte per fermarsi ai convenevoli del momento. Le ho gettato le braccia al collo per abbracciarla. Per capire, in quello stesso istante, che il tempo aveva compiuto il suo cerchio. Come un patto segreto tra le nostre vite e l’orologio cosmico.

Come Solange vent’anni prima, alla sua stessa età, Lidia era incinta.

*****

Un anno più tardi avrei lasciato il mio fidanzato. Avrei anche smesso di lavorare nel mio studio milanese, scegliendo una vita più autentica, qualcosa di più vero che mi assomigliasse. Che assomigliasse alla Lidia di allora.

E soprattutto, avrei avuto qualcosa che mi avrebbe finalmente accomunato, ancora per una volta, con la Solange di allora e con l’altra Lidia, quella che avevo incontrato quel pomeriggio assolato di luglio. Anch’io ero incinta. Avevo avuto il coraggio di fare quel salto nel vuoto con la naturalezza delle mie due amiche. Adesso veramente avremmo avuto un legame che ci avrebbe unite per sempre.