Era l’ultima notte di ottobre, la notte delle tenebre.
Lo sguardo metallico di un plenilunio ceruleo gettava una lama di sangue su quella landa di rovi, cenere e abiezione segnata con le stimmate della desolazione.
Due alte torri all’orizzonte, sospese in bilico sopra il culmine del vuoto, incorniciavano quel paesaggio enigmatico dove alcuni scorpioni strisciavano silenti verso il confine dell’ignoto.
Si udì ad un tratto un boato, un muto lamento, uno stridere implosivo che pareva prolungare all’infinito il tanfo stagnante di quella putrida melma marcescente.
Era quello il momento per l’abisso di risorgere sulla spirale del tempo. Oltre il confine dello Stige, su un trono di spine crocifisso, la scala ritorta della vita si sarebbe oscurata, offuscata dall’eclisse.
L’oscurità avrebbe vinto sulla luce, le tenebre sul giorno, le ceneri sulle carni, le ombre sui corpi. Gli spiriti sulle anime. I gemiti strozzati negli incubi a mezz’aria sui sogni nitidi ad occhi aperti. Sulla ridente salute la malaria.
Destituiti gli angeli, si liberarono finalmente i Demoni, le cui trombe allora squillarono un Giudizio Finale a canone inverso, baccanali soffiando nei corni di Pan e mantra orfici di un sapore perverso.
Per una notte soltanto, ogni ordinario equilibrio si rovesciò, come se lo stesso cono ad imbuto del cratere del mondo che era l’Inferno, di colpo si fosse mutato, e la leggerezza insostenibile di un Eden eterno venisse travolta da un invincibile, perenne inverno.
In quella dimensione avulsa dal tempo e disabitata dalla legge, la ragione era una nota stonata che su quel gregge di anime se la rideva a crepapelle. Divertita e poi volata via, come ogni logica svanita, e così sia. Una strega sdentata senza cappello, nuova fonte di disgusto se si eccettua un qualche orrido e strano orpello.
Dal tronco secco di un arbusto, clessidra anomala ai più sconosciuta, dondolava il pendolo umano dell’Appeso, che delle frasche si faceva ombrello. Quei rami disposti a raggiera, deserti e privi di ogni foglia, nell’aria lo tenevano sospeso a guisa di pipistrello, legato per una caviglia.
Mostrava la carcassa ormai spoglia di un cadavere senza volto, la corda avvolta e lisa gli pendeva lungo il fianco, dai rapaci il fegato era stato consunto. Quella, almeno fino all’alba, ne sarebbe stata l’amara sorte: nella notte di strazi e paura, nessuno avrebbe reso alla terra ciò che furtiva aveva già trafugato la morte.
Era lei, la Dama Oscura, l’occulta protagonista della macabra veglia. Cavalcava il suo bianco destriero a una sola briglia sventolando anarchica la sua indomita, nera bandiera. La Rosa che dalle spine era avvolta in mille aguzzi fendenti, alle vittime strappava l’anima, prima di lasciarle dilaniare alle belve, coi loro denti.

Ma il supplizio supremo, dirsi non poteva finito. Doveva quella essere una notte solenne, delle ombre sublime divertimento, ghigno perenne, il loro volere si doveva esaudire, senza alcuna soluzione di tormento far loro gioire.
Mancava dunque la Ruota. Ai suoi dieci raggi a forma di croce, il carnefice legò gli ostaggi, e così girando nell’eterna risata dell’andirivieni, un tripudio stridente di ossa, crani, femori e braccia, lacerati tutti li fece nella comune fossa. Quello sarebbe stato il dovuto esito di tanta sfarzosa festa, un bel gran vedere, se prima la nausea del suo principale artista non avesse avuto l’ardire di sfociare in vomito, sulla cupa messa.
Ma nemmeno lì si fermò quel perverso, nefando convito.
Le ombre raccolsero i corpi esangui, allo stremo dell’ultima agonia, simulando per essi compassione, sadicamente, con caritatevole cortesia.
Sulla landa la Torre eressero, richiamando un primordiale, mitologico ruggito: per il mare l’alluvione, l’ira dei venti dal cielo e l’uragano col suo ciclone. Per ultimo arrivò infine il fulmine, che nel suo mezzo la torre ebbe colpito.
La visione apparsa era chiara predizione: in un tempo moltiplicato all’infinito, la bocca di un drago vi avrebbe eruttato, panico fuoco e disperazione. Le genti così accalcate tutte intorno si sarebbero spinte, come anime dannate, urla e strazi la vana invocazione, i loro corpi protesi verso il vuoto, scagliati nel nulla, miseramente infranti al suolo come vile poltiglia.
Ultimo arrivò infine il Diavolo, il cui numero era il Tredici, perché di quella notte era il regista, il mattatore libero senza giudici. Godette di tutto Satan, che nelle spire dimorava dell’occulto, e baldanzoso con maestria si pose al centro di quell’orchestra, placandone placido il tumulto, il delirio della folle giostra. Fino al più estremo sussulto.
Danzando sulle carni martoriate e dei cadaveri musicando le agonie, le paure ne avrebbe trasformato in oasi dell’incubo, i sogni in inferni di carestie.

Satan era l’anti tempo, colui che del cratere dimorava l’abisso. Sulle corna portava una stella, un cielo riverso, il tumulo del Crocifisso.
Intonò un ultimo canto, le ombre nel cerchio di genuflessione, quando le dita di un’alba amaranto gli diedero il segno ultimo di abdicazione.
Tutto si sciolse nella nebbia, tornò nel nulla da dov’era venuto. Polvere, fumo e graniglia, la scia di un ultimo vagito.
Sulla landa deserta restava la Bibbia, il libro che dissipava le tenebre. Niente più restava di quella notte. Ad accogliere il primo novembre, nemmeno un misero, lontano pugno di cenere.