IL GIORNO DOPO – L’eco sorda di una notte assurda

In occasione del 25 novembre, GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE, un racconto dedicato a ogni donna che soffre e in ricordo delle vittime di violenza sessuale, fisica e psicologica, finalista al 16 CONCORSO LETTERARIO “STORIE DI DONNE”- Comune di Arco- 2021- Premio Sezione Generale🙏🏻⭐️

Erano in cinque.

Una domenica pomeriggio come tante, o forse no. Considerato il coprifuoco, il fatto che sarei dovuta rientrare a casa per cena, che sarebbe stata solo una festicciola tra amici, che ci sarebbe stata anche Francesca, forse pure Mariagrazia.

Mi aveva invitato Gianni, il migliore amico di Luca, due ragazzi molto popolari di quarta che finalmente sembravano avermi notato, come se di colpo io, una mera primina, fossi emersa come un jolly da un mazzo di carte altrimenti destinate a marcire in soffitta.

Era già da un po’ che mi ero fatta coraggio, e con l’intento di archiviare la mia proverbiale timidezza mi ero forzata a postare sui social le mie foto migliori, osando il rossetto e il tacco più alto, la minigonna più corta, pure un leggero inarcamento delle sopracciglia, così di moda. Ma nel mucchio mi pareva comunque di passare inosservata, insipida come mille altre vorreimanonposso.

Questa volta invece ero sinceramente entusiasta per quell’improvviso colpo di scena che mi vedeva assurgere alle luci della ribalta del mio breve momento di gloria. Di colpo mi sarei innalzata sulle compagne di scuola, mi avrebbero ammirata come quella che era riuscita a conquistare il ragazzo più ambito da tutte, lui che aveva la moto, la casa al mare e pure i biglietti più introvabili per i migliori concerti, che i suoi genitori appartenevano a certi ambienti e i vip li frequentavano.

Sarei insomma uscita dall’anonimato cui da tempo mi sentivo relegata in forza di una sordida condanna -rigorosamente autoinflitta- che mi decretava sfigata dell’anno, senza apparente possibilità di redenzione.

La secchiona di provincia, tutta oratorio suore e divieto di parolacce: questo era lo stigma che mi ossessionava, rimbombandomi nelle orecchie e marchiandomi più degli ultimi brufoli superstiti di un impietoso acne.

Ma quel fatidico pomeriggio mi sarei finalmente riscattata, tirando fuori il meglio della me più inedita, quella che da anni aveva voglia di provare il primo tiro di sigaretta, o di ridere disinvolta indossando quel velato tono di malizia che prima di quel giorno avevo solo spiato sul volto delle altre.

Avrei messo in scacco la vecchia me, archiviandola in fondo alla rimessa più buia di un passato da cui finalmente ero fuori: avevo voltato pagina, addio all’infanzia, alla secchiona, all’epiteto di quattrocchi, alla cocca della maestra che aveva i genitori severi ma non il coraggio di ribellarsi, e benvenuta adolescenza. Non aspiravo a bruciarla del tutto, ma una lieve affumica non mi avrebbe fatto male.

Pensavo già a cosa avrei detto o fatto il giorno dopo, come se il confine tra un passato sull’orlo dell’emarginazione e un brillante futuro da cheerleader dipendesse solamente dall’esito di quella stupida festa.

Di colpo, la mia quarta di reggiseno non sembrava più un problema da occultare in maglie oversize agli sguardi indiscreti degli adulti che non sapevo mai come gestire: ora ero pronta a sentirmi finalmente donna, o perlomeno ne ero convinta.

Ma così non è andata.

Ho provato a chiedere quando sarebbero arrivate le altre, ma non mi hanno risposto. L’ebrezza di essere l’unica ragazza, forse anche solo per un attimo, mi ha fatto sentire importante, per la prima volta desiderata, annebbiando ogni altra urgenza.

Per nulla al mondo, del resto, avrei voluto apparire bacchettona o all’antica, o anche solo poco sportiva. Men che meno essere etichettata come ingenua. Volevo a mio modo sorprenderli, mostrar loro che i libri in cui fino a quel momento avevo vissuto mi avevano insegnato a stare al mondo più dei loro stupidi videogames o delle frivole chat sui social. Che non ero ovviamente digiuna di “certa roba forte”, anche se confondevo i porno con Nove Settimane e Mezzo e non avevo la minima idea riguardo a cosa precisamente alludessero con i loro termini in codice e gli sguardi furtivamente allusivi.

Così superai il primo impatto e, per darmi ulteriore coraggio, iniziai a mandar giù il primo sorso di vodka. Poi ancora un altro goccetto, e infine un mezzo tiro, il primo della mia vita.

Ma a quel punto mi girava la testa e, per paura di non reggermi in piedi, o peggio di rimettere come il fantasma appena esorcizzato di una timorosa educanda, mi sono sdraiata sul divano.

Feci un grande sforzo per dimostrarmi all’altezza della situazione, anche se la femme fatale del mio onirico iniziava a vacillare, facendo acqua da tutte le parti, e non sapevo più a chi ispirarmi per reggere il gioco. Le poche riserve a cui attingere erano ahimè quasi del tutto esaurite, come le ultime briciole del buon senso ormai evaporato assieme ai fumi della prima canna.

Valentina di Crepax? Anacronistica. Meglio qualche sgallettata rockstar dell’ultima ora, ma a quel fine, per essere credibile, dovevo ancora superare l’ultima resistenza all’alcol. Coraggio, ancora un bel sorso di rhum, il cosiddetto mischione, e via come nei peggiori western che avevo sporadicamente visto al cinema. Mi sarei forse guadagnata una specie di medaglia al merito come reincarnazione di Anne Bonny, l’eroica donna pirata che non avrebbe temuto nessuno, nemmeno il confronto con cinque ragazzi più grandi di lei e dalle incerte intenzioni, praticamente degli energumeni.

Poi uno di loro mi si è avvicinato, accorciando le distanze. Me li sono visti così, di colpo, tutti addosso, come un branco di lupi inferociti determinati a farmi a pezzi, ove non avessi ceduto all’istante, fingendomi consenziente, capitolando sulla mia stessa innocenza ormai infranta, macchiandomi per sempre la coscienza.

Con la paura negli occhi, lo smarrimento a gelarmi le ossa e una morsa tagliente nella carne ho tacitamente firmato la mia stessa condanna. Il terrore ha fatto il resto.

Ho perso ogni cognizione del tempo, e tutto si è affastellato. Immagini suoni nebbia, fumo nella testa, come se fosse solo il frutto di un’assurda allucinazione. Mi ero trasformata nella vittima consenziente di un orrore consumato sotto ai miei stessi occhi.

Lo sapevamo che sotto sotto eri una di quelle, dai allora prova questa, e vai con un altro giro di canna”, e via libera a mani che mi frugavano nella scollatura e sempre più giù, fin sotto alle mutande, i vestiti tolti con prepotenza, i loro membri sulle mie labbra, e gli altri a spingere con l’intento lacerante di deridere, di farsi beffa della mia posizione più debole, di infliggermi colpe già decise nelle loro menti, come belve che si cibavano delle mie carni strappandole a morsi, convinti che non avrei mai avuto il coraggio di parlare. Ma anche solo, implicitamente, con l’intento perverso di umiliare.

Avevano premeditato tutto: la mia sottomissione psicologica più ancora di quella fisica, il mio disperato bisogno di accettazione, la solitudine senza soluzione in cui mi ero reclusa, fino ad arrivare a elemosinare anche solo il più misero straccio di considerazione.

Assente a me stessa mi sono vista da fuori, come un’estranea, il mio volere paralizzato da quello che sembrava un frame a rallentatore del peggiore incubo. Avrei voluto uscire dal tunnel, urlare per chiedere aiuto, ma la realizzazione di non avere nessuna via di scampo mi pietrificava, e quello che contava, allora, era semplicemente sopravvivere, incassare, tirare avanti.

Sarebbe bastato trattenere la nausea, tuffarmi in un’apnea profonda fino a toccare l’apice dell’abisso, rifugiandomi in vuoto concavo, e forse allora domani sarebbe stato un altro giorno.

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Il giorno dopo ti svegli, senza più sapere chi c’era dentro al letto.

Il giorno dopo fingi di andare a scuola, e svogliatamente ti trascini a fare la spesa.

Il giorno dopo dimentichi, anche se dimenticare non è più possibile.

Il giorno dopo ti lavi, ma l’acqua è fango e lentamente scivoli lungo lo scarico, come lo scarafaggio che vorresti schiacciare con un colpo netto del piede, ma non trovi il coraggio e lui è ancora vivo, mentre tu a stento galleggi.

Il giorno dopo uno stretto nodo alla gola ti impedisce di prendere fiato, ma è un nemico invisibile e contro i mulini a vento non si può combattere.

Il giorno dopo implori che qualcuno possa udire il tuo silenzio. Ma è difficile leggere il vuoto, figurarsi di te cosa gliene importa alla gente.

Il giorno dopo lo specchio è il tuo peggiore nemico, e quell’estranea che ti guarda di sbieco è solo un’ombra che non trova riposo.

Il giorno dopo ti racconti che tutto è come prima. Ma il tuo orologio si è spezzato, mentre cerchi di rimettere insieme i cocci dispersi della tua anima.

Il giorno dopo è un fiore calpestato.

Il giorno dopo è un grilletto premuto, quando il proiettile ha fatto centro e il bracconiere esulta sul corpo della preda.

Il giorno dopo è un mancato aiuto, un giudizio affrettato, la muta indifferenza degli altri, un sorriso negato.

Il giorno dopo è ogni volta che non hai il diritto di parola, non riesci a prender fiato mentre gli altri ti assordano con le loro risa e tu, come sempre, taci e ti senti sola. Perché, tanto, così è sempre stato.

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Dedicato a tutte le donne che soffrono 🙏🏻

Silvia Alonso