– LA LEGGENDA SEGRETA DELLE STREGHE DI TRIORA E DI ELLERA-
Era molto tempo che nessuno si addentrava per quei sentieri. Tutta colpa delle diaboliche creature che si diceva avessero invaso la sottile lingua di terra che da Alibisola superiore si estende sino ai confini del borgo di Ellera. Le morbide alture che si affacciano sul mare del ponente ligure fanno fatica ad aprirsi un varco tra le strette gole delle montagne a ridosso. Vengono bruscamente strozzate dalla durezza di quest’ultime, e il paesaggio si ritrova di colpo a mutare, come per uno strano sortilegio, dal sorriso gioioso delle lunghe spiagge al ghigno sinistro della roccia.
Proprio lì si trovava il forestiero, nei pressi dei ruderi dell’antica chiesetta dedicata alla Maddalena, poco prima del bivio che demarca l’ultima salita verso la roccia più aspra, per secoli mai irrorata nemmeno da una goccia di acqua sorgiva. Non sapeva che poteva costargli la vita. L’insolita desolazione di quei luoghi non era bastata a metterlo in all’erta, così proseguì imperterrito sino quando ai piedi del grande castagno, in una conca ricolma di arbusti e paglia, avvistò un uovo dalle dimensioni non comuni.
Ora io non saprei riferirvi esattamente cosa narri la leggenda a proposito di quegli orribili ibridi. Si vociferava che le loro uova fossero deposte da galli giunti per disgrazia al settimo anno di vita, per mano della fatalità fecondate da enormi rospi sopra un letto di letame. Quello che avvistò, era di poco inferiore alla sfera di uno struzzo. Ma nelle vene del nostro amico scorreva sangue di cavaliere, i suoi antenati si vantavano di aver duellato persino coi draghi, perciò non riuscì a tirarsi indietro, sebbene il presagio fosse funesto, e proseguì impavido. Fu proprio mentre si avvicinava attirato da uno strano rumore, per capire cosa diavolo fosse a scricchiolare in maniera così insistente e con un’intonazione tanto stridula, che l’orrida creatura spuntò fuori dal guscio.
Una minacciosa cresta gli partiva dal capo per ricoprirgli tutto il dorso, e strane ali di pipistrello conferivano al corpo, benché rotondo, un aspetto fortemente disarmonico. Zampettava come un ubriaco in equilibrio precario su quelle lunghe zampe da rapace. Ma lo sguardo, quello no. Possedeva già il piglio terribile di ogni basilisco. Il taglio netto dell’iride a spillo, ove al suo interno si può leggere l’intenzione che è il segreto di ogni peggior crimine: l’azione segue all’idea, il colpo mortale all’implacabile volontà di uccidere.
«Troppo tardi, sono spacciato» pensò il nostro amico. Non aveva fatto in tempo a schermirsi, la curiosità aveva vinto e lui, prima di accorgersi del fatale errore, lo aveva guardato dritto negli occhi.
Certo che in breve tempo sarebbe rimasto pietrificato, prima di accasciarsi a terra, raccolse le ultime forze per sfoderare la spada e giustiziare il mostro che avrebbe posto fine alla sua breve vita, privandola di ogni gloria. Quando però la lama toccò la cresta della dannata creatura, accadde l’inverosimile. Il basilisco fu divorato dalle fiamme, e dalle sue ceneri sbocciò un bellissimo fiore, il raro frutto dell’ibisco. Era quello il segnale che il prodigio si era compiuto. Si aprirono allora le gole delle montagne per esalare dei respiri, come delle lontane eco di donne che per secoli erano rimaste imprigionate in quelle rocce.
«Sia questo un nuovo inizio. Il cavaliere ha avuto il coraggio di guardare negli occhi l’ultima di queste creature, sciogliendo la maledizione. D’ora in poi, queste montagne torneranno a sorridere» dissero in coro.
Gli spiriti filiformi delle fate si erano finalmente librati alti nel cielo creando un enorme arcobaleno, simbolo di pace.
Al vedere tutto questo il cavaliere restò incredulo. Fu proprio lui a narrarmi la storia che faceva capo alla maledizione delle streghe di Ellera e alla mortale rivalità che per secoli le aveva legate al malvagio borgo di Triora.

*****
«Il licopodio è sulla mia persona.
Finché di lui mi nutrirò,
le mie vesti voleranno leggere,
nessun male potrò temere,
il sortilegio combatterò,
sempre amica mi sarà la Luna».
Il fuoco era quasi del tutto spento, nel cerchio disegnato sulla radura. Prima di portare a compimento il rituale sacro, intonata la canzone di chiusura, le donne indugiarono ancora qualche istante tenendo le mani saldamente intrecciate le une nelle altre, le braccia alzate a mezz’aria, per meglio incanalare verso le stelle quell’ultima invocazione. Apparteneva all’antico rituale celtico di cui si consideravano le eredi, una tradizione dove le donne non solo erano, in parallelo agli uomini, detentrici del potere, ma anche le principali depositarie di un atavico sapere legato al culto della Grande Madre: quello druidico, di cui l’antico borgo di Ellera costituiva un piccolo atollo.
Una geografia di santuari si snodava dalla lontana Irlanda lungo un asse verticale che includeva il Galles e, attraversando il territorio franco/belga, arrivava a toccare il Nord d’Italia, l’antica Gallia Cisalpina di cui la Liguria costituiva la punta estrema. Un punto focale per l’energia, in quanto confine simbolico di un antico Eden, un regno di pace e giustizia che aveva conosciuto il massimo splendore nel mito di Artù e Merlino, di cui il Sacro Graal era la somma espressione.
In questo crocevia di culture, anche la natura sembrava elargire la sua più speciale energia. Gea, e in lei la potenza della Dea Madre, raggiungeva il suo massimo splendore grazie all’incontro col mare. Il clima mite del Mediterraneo portava nel suo bacino materno la forza sublimata dei quattro elementi primordiali: fuoco, terra, aria e acqua. Principii che ora venivano invocati dalla nuova setta delle streghe bianche.
Era necessario costituirsi in un ordine, come un tempo fu necessario armarsi cavalieri per far fronte all’imminenza di un nemico mortale. Non poteva più ignorarsi, in Liguria, il dilagare diabolico delle streghe nere, di cui il borgo di Triora costituiva l’infelice epicentro. Certo: su di loro erano girate pure tante maldicenze infondate, le malelingue erano persino arrivate a coinvolgere donne innocenti e ragazzine impuberi, vittime della calunnia. Eppure … solo le streghe buone potevano captare con cognizione di causa il vortice di energie negative che si addensava minaccioso nelle vicinanze. Una nube densa e oscura arrivava da ponente verso il levante, e s’ingrandiva sempre di più, giorno dopo giorno. Nei codici della magia il significato era univoco: l’angelo ribelle, conduttore delle schiere del polo inverso, stava prendendo il sopravvento nel necessario equilibrio tra Luce e Ombra.
Perciò le streghe bianche di Ellera, devote al culto di Maddalena, si erano trovate a pregare in quell’ultima notte di plenilunio. Sciolsero il cerchio, il fuoco si spense, ma dalla cenere ancora ardente si sprigionò un alito di fuliggine a forma di colonna, per evaporare in direzione della luna.

*****
Sapeva di essere molto potente, oltre che bella. I lunghi capelli neri e gli occhi di brace avrebbero incenerito di desiderio qualsiasi uomo. Le vesti aderenti, poi, ne mettevano in evidenza il corpo sinuoso, rendendola irresistibile. Sognava di diventare, un giorno, così brava da potersi conquistare, oltre che un fidanzato valoroso e bello come il famoso Antonio, anche un vasto impero di anime al suo servizio. Per questo, non aveva nessuno scrupolo a fare sortilegi. Le divinità dell’oltretomba egizia le erano compagne nelle pratiche di necromanzia in cui era esperta. Ove necessario, avrebbe acuito anche la sua indole più oscura.
Sin da piccola si era sentita attratta dalla sapienza antica. I codici in ebraico, pressoché irreperibili nelle sue terre, le erano stati ceduti da un anziano rabbino venuto a rifugiarsi come un eremita nel suo piccolo borgo, spinto dalla necessità di sfuggire all’ennesimo pogrom. Tra i due si creò subito un silenzioso sodalizio: una sorta di nesso karmico capace di trascendere l’abisso di età che li divideva. Era da tempo che il vecchio cercava un degno erede, e appena gli capitò di incrociare quella ragazza ne riconobbe subito dagli occhi la sete viva che la divorava, il desiderio ardente di conoscenza che la rendeva famelica come una belva alla ricerca della preda.
I sigilli di Salomone, i rituali babilonesi, la numerologia sacra abbinata alla Kabbalah, solo alcune delle materie dell’antica Sapienza che imparò a maneggiare con la dedizione devota di una discepola. Era persino riuscita ad eguagliare il potere ventriloquo della leggendaria Strega Endor, colei che predisse al Re Saul l’imminente disfatta per mano di Davide. Nessuno, in tutto il paese, la poteva eguagliare. Si chiamava Erminia, era la strega più potente di Triora, e quella notte stava preparando il suo primo rituale nero.
Pose i carboncini nel piatto di rame, poi, attenta a non scottarsi, li smosse con una lunga pinza. Sotto, il fuoco era caldo. Allontanò per precauzione il seggio in legno, che si era fatta preparare secondo le istruzioni del maestro. Ai lati dello schienale, un paio di colonnine tortili fungevano da trespoli a due sculture di aquile, mentre le gambe lignee posavano fiere su zampe leonine. Pareva un trono, appositamente forgiato per risultare infallibile. Qualcuno aveva suscitato la sua collera, e ora la vendetta era diventata necessaria.
«Il braciere arde, come arde la mia ira.
A me vieni, Ashmadai,
che il tuo potente spirito
per tutta la notte invocai.
Quando l’incenso si fonderà,
tra gli effluvi malefici nell’aria satura
il sortilegio si compirà».
Afferrò il lungo coltello sul tavolo, impugnandolo con fermezza pari ai suoi propositi. Il piccolo animale era pronto, lo aveva disteso supino sopra un piatto in rame, con la cura meticolosa con cui un tempo veniva allestito l’altare per immolarvi l’agnello sacrificale. Con un movimento fermo gli incise un taglio longitudinale, per estrarne le prime viscere. Apertolo in due, ne tirò fuori prima il fegato, poi il cuore. Seguì una specie di malinconia amara, l’ira non le si era del tutto placata e, prima che il demone apparisse, intonò una canzone cupa.
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Erano state due sorelle inseparabili, seppur assai diverse.
Erminia, così intelligente ed esuberante, ed Erica, la cui timidezza rasentava l’incredibile. Anche nelle fattezze fisiche non potevano essere più difformi. Tanto magnetica e seducente si presentava la prima, quanto insignificante poteva a prima vista apparire la seconda.
Biondina, esile e quasi smunta, Erica preferiva rifugiarsi nella discreta compagnia delle piante per assaporare il silenzio dei boschi, piuttosto che vivere immersa nel fragoroso rumore del borgo. Di studiare, poi, non se ne parlava nemmeno: tutto ciò che fosse correlato a una qualche remota forma di Ego, o al culto presuntuoso della conoscenza la rendeva ritrosa per natura. Sembrava quasi uno spirito rarefatto, l’anima evanescente di un qualche elfo incastrato per bizzarria della sorte in quel corpo di bimba, e rinunciando a vivere nella dimensione terrena, cercava di sopravvivere a mezz’aria, sospesa tra due mondi. Per questo Erminia si era fatta carico di proteggerla. Rimaste presto orfane di madre, toccava a lei, la maggiore, prendersi cura della più piccola.
Ma quando Erica divenne adolescente, tutto cambiò.
La bellezza sino ad allora schiva di quella strana creatura dall’indole aerea era via via divenuta più evidente, sino a farsi minacciosamente corporea, luminosa, magnetica. A quindici anni, sembrava una fata. E l’invidia di Erminia, a stento tenuta a bada dall’affetto fraterno, cresceva a dismisura, in parallelo al suo incontenibile Ego. Ogni volta che la sorella le era accanto sentiva avvicinarsi, incombente, il pericolo: temeva che la sua freschezza la potesse mettere in ombra, e questo non faceva altro che accrescere le sue, già pressanti, di ombre.
Poi, un giorno, avvenne l’inevitabile. Robert, il falconiere da lei bramato, se ne era andato per sempre. Con un’altra donna. Quel ragazzo così impavido da riuscire ad ammaestrare il falco, il rapace più vicino all’aquila da lei venerata, era il sogno irraggiungibile di ogni fanciulla. Doveva diventare suo, lo aveva desiderato sin dal profondo delle viscere, era inevitabile che fossero predestinati a stare insieme. Non le riuscì difficile sedurlo in una lotte di luna piena, quando sapeva che era solito recarsi in solitudine nel cuore del bosco per lasciar volar libero il suo falco. Fecero selvaggiamente l’amore, come per una sorta di sortilegio, una febbre cieca che ne annebbiava la ragione, rendendoli rapaci più dei loro volatili. Quando il sonno lo vinse, gli appose un invisibile sigillo per legarlo a sé. Nessuna al mondo avrebbe potuto sottrarglielo. Nemmeno sua sorella.
Ma il tempo era passato. Sua sorella era diventata donna, Robert sembrava sempre più schivo e persino i suoi poteri di strega parevano affievoliti. Sapeva di essere impotente di fronte all’inevitabile.
Li sorprese avvinghiati in un abbraccio inequivocabile.
Corse via in preda alla furia. Doveva fare qualcosa per arrestare il corso degli eventi. Qualunque fosse stato il prezzo da pagare, anche a costo di violare il principale tabù del mondo delle streghe, che imponeva di non interferire col destino. Del resto, sapeva quale fosse in quei casi la soluzione estrema.
Si trattava di agire sulle Sfere superiori del tempo. Doveva agganciarsi al “prima”, azzerando con un colpo magico quanto era avvenuto “poi”, per sovrascrivervi un altro “mentre”, e tutto si sarebbe aggiustato. Ma non poteva riuscirci da sola: era necessario l’aiuto di una forza superiore. Certamente gli angeli non l’avrebbero aiutata. Era un’impresa degna del migliore tra i démoni. A quanto ne sapeva, Ashmadai era il più potente di tutta la tradizione.
Era a lui, che avrebbe dovuto rivolgersi.

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Avevano fatto di tutto, durante quegli anni, per mettere a tacere i sentimenti, nascondendo l’evidenza, fingendo di conoscersi a malapena. Eppure, quanto più resistevano alla reciproca attrazione, tanto più quest’ultima tornava ad insidiare i loro cuori con una forza centuplicata. Fino a divenire irresistibile.
La verità era che erano nati per stare insieme. Condividevano la medesima indole schiva, l’amore per la solitudine, l’attitudine a perdersi nella natura. Robert parlava con gli uccelli ed Erica sussurrava alle piante: erano lo spirito del cielo e della terra, in una fusione continua, che desideravano quell’unione karmica. Così, infatti, avvenne: l’anima di una giovane quercia, alle cui radici la giovane era solita pregare, richiamò sui suoi rami il falco del ragazzo.
Quella mattina, il rapace aveva deciso di non rispondere al richiamo di Robert. Nulla poteva il fischio acuto che sempre era valso ad indicargli il percorso di ritorno: l’aria si era fatta più densa e aveva opposto resistenza alle onde sonore, un’invisibile interferenza ostacolava la comunicazione tra lui e il volatile, sì che le sue ali sembravano essersi incollate a qualche ramo ignoto. Fu perciò costretto a mettersi in cammino, per andarne alla ricerca. Ma quando, verso la fine del bosco, lo vide volare in cerchio sopra la grande quercia, capì che era un segnale.
Avvistò da lontano Erica, e il cuore gli fece un balzo nel petto, come se anche lui, finalmente dotatosi di ali, volesse spiccare il volo. Si guardarono negli occhi, sopraffatti dall’emozione reciproca, dalla sorpresa di ritrovarsi soli, nudi di fronte ai propri sentimenti, senza nemmeno il coraggio di parlare.
In loro vece, parlò lo spirito del bosco. Si alzò dalle foglie un lieve venticello e in breve tempo ne scaturì un armonioso fluttuare di chiome che intonò una specie di danza tra gli alberi: la natura stava consegnando alle loro anime il suo messaggio più vero.
Bastò un istante, perché i due lo intuissero.
«Siete nati per stare insieme. Vi unisce un legame animico che va oltre la tirannia del tempo. I vostri due cuori sono come magneti di segno opposto che a contatto creano un vortice energetico: il mondo ha bisogno di voi. Una missione vi è stata affidata, quella di risvegliare lo spirito dormiente della natura e di farvi suoi sacerdoti, diffondendo il suo amore tra gli uomini. Nasceranno tempi difficili, le tenebre avranno il sopravvento, ma voi non temete: questo mondo è stato creato dalla Luce. Sarete i suoi messaggeri, a Lei farete ritorno».
Fu proprio quando si abbracciarono, per non lasciarsi più, che li sorprese Erminia, travolgendoli con la sua collera.
«Vi costerà la vita!» urlò rabbiosa la donna, prima di scappar via.
La danza degli alberi si trasformò allora in un fremito compulsivo di tronchi travolti dal Caos, e l’aria si fece densa. Una tempesta di foglie, pioggia e grandine si abbatté sul borgo di Triora. Nulla fu più come prima.
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Era apparso, ne percepiva nell’aria l’olezzo putrescente. Fetore di letame misto all’aroma dolciastro del sangue rappreso. Ma la sua collera era più forte della nausea, e le imponeva di resistere.
«Dimmi dove si trovano ora!»
Core silvae. Nea koinà erastes kataoikizousin. Aman.
Un’ingarbugliata accozzaglia di antichi idiomi, tra cui decifrò a stento qualche lemma latino nonché sprazzi di greco ed ebraico, le suggeriva che gli amanti fossero scappati oltre i confini della sua terra, per fondare una nuova comunità e vivere a contatto con la natura. Questa, secondo la voce del démone, pareva essere la “loro missione”.
– Dunque non si tratta di una passione passeggera – deglutì amaramente.
«Come posso fare affinché tutto ritorni come prima, tu che sei Maestro nella manomissione del tempo?».
Ci fu silenzio. La voce sembrava come scomparsa, quando una risata ventriloqua colmò la stanza e, davanti a lei, si aprì un’enorme crepa. Prima che se ne rendesse conto, una fragorosa scossa tellurica la trascinò al suolo facendole contemplare il suo stesso sangue uscirle a fiotti, come un fiume a cui avessero rimosso gli argini.
«Ti credi grande, come Strega. Ma sei solo una presuntuosa. Ora mi starai a sentire, e mentre parlo mi godrò il terrore disegnarsi nei tuoi occhi, lentamente, come il dolore che stai provando nelle membra, che si farà via via più intollerabile».
Sbarrò gli occhi, e come una pazza furiosa si mise a urlare una raffica d’imprecazioni mortifere in idiomi sconosciuti, tentando di arrestare l’inevitabile. Era in preda al panico, alla rabbia e a un senso inaudito d’impotenza. L’assurdo stava prendendo il sopravvento sulla ragione, quanto stava succedendo non poteva essere vero. La magia le era scappata di mano, e ora si sarebbe ritorta su di lei stessa: aveva invocato un démone troppo potente per dominarne la forza e l’impeto indiscriminatamente omicida.
Quanto seguì, fu il frutto di un incubo reale di cui cadde preda. Gli occhi rivoltati al cielo, un vortice a spirale ne sbatteva ovunque le membra afferrandola per i capelli e facendola volare per la stanza. Lo spirito demoniaco continuava a parlarle in una lingua oscura che a stento comprendeva, più le sue parole avanzavano, più sentiva una gabbia di fuoco imprigionarle l’anima, divorandola viva.
Sangue, morte, dolore, erano il prezzo che il démone richiedeva, la moneta con cui bisognava ripagarne la risalita dalle viscere della terra. Sciagure di cui si nutriva, come pegno del suo intervento. Non si sarebbe limitato a fermare i due amanti, per il mero capriccio di quella strega.
«Gli inferi reclamano il sacrificio di anime pure, affinché il male possa perpetrarsi nei secoli. Ma tu, mia giovane ancella, sarai la porta attraverso la quale mi aprirò la strada. Il tuo corpo diventerà la soglia da cui si sprigionerà la tenebra. Tu per prima t’immolerai per la causa » Questo, il senso delle sue parole.
Il dado era segnato. Erminia non era più in possesso delle sue facoltà mentali e fisiche, ma solo preda di quella furia omicidia. In una breve visione sul futuro, vide che presto in tutto il suo borgo sarebbe fiorito il culto dell’ombra. La visione si allargò sino a mostrarle roghi accesi, le fiamme non avrebbero risparmiato nemmeno le anime innocenti. Il Tribunale dell’Inquisizione avrebbe fatto strage, anche lui fattosi strumento del male. Su Triora si sarebbe abbattuta la sciagura e, a seguire, sorte non certo migliore sarebbe toccata alla nascente comunità di Ellera.
Il piccolo borgo avrebbe cercato di resistere all’ondata di male portando avanti la sua missione di pace, fino a quando l’ombra non avesse avuto la meglio anche su di lui.
I basilischi, sarebbero stati il segno che la maledizione si era presa anche Ellera.
Quando la visione terminò, il corpo di Erminia era oramai interamente smembrato. Giaceva al suolo in uno stato catatonico, sprofondato nell’ombra, immerso nel suo stesso sangue. Solo la volontà si era mantenuta viva, lottando per resistere intatta in un anglo remoto della coscienza. Prima di venire risucchiata per sempre dalla Tenebra, nel breve lasso di tempo che le restava per evitare che la maledizione divenisse irreversibile, fece in tempo a formulare un ultimo, debole antidoto. Chiunque avesse avuto il coraggio di guardare negli occhi un basilisco senza provare timore, avrebbe sciolto la maledizione. Triora ed Ellera sarebbero stati salvi.
Lottò fino all’estremo affinchè quel residuo di luce potesse riemergere dalle sue viscere orami fatte poltiglia. Ma alla fine, ce la fece.
Erica e Robert morirono presto, ma riuscirono a fondare una comunità di streghe bianche, portatrici di un messaggio di luce che per diversi anni contrastò la maledizione di Triora. Fino a quando il cono d’ombra si estese anche su Ellera. Il resto, è divenuto leggenda.
Non so dirvi che fine abbia fatto il mio amico. Qualcuno mi ha detto che è ultimamente stato avvistato nel bosco, dove vive come un eremita, pregando lo spirito salvifico di Maddalena. So però per certo che l’altro giorno, accanto alla mia porta, ho visto fiorire due ibischi, proprio quelli che erano stati generati piantando il fiore che mi lui aveva donato. Se ciò sia possibile in inverno, non spetta a me giudicarlo.
Del resto, c’è qualcuno tra di voi che ancora crede alle streghe?
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Racconto tratto da “DELIRIO, BRIVIDI AL NERO DI LUNA”, Bré Edizioni https://www.amazon.it/Delirio-Brividi-al-nero-Luna-ebook/dp/B09JJNHRXX
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