Venezia, Ca’ Noghera. L’imponente edificio s’innalza regale sulla Laguna. È un palazzo in stile barocco elevato su tre piani, orizzontalmente scandito da un triplice ordine di cinque bifore ogivali, ciascuna separata da una colonna centrale e a sua volta incorniciata da una coppia di obelischi più alti. I capitelli corinzi, i tondi che come cammei ne sovrastano le mezzelune, i piccoli balconi che si affacciano sul mare, ogni minuzioso particolare di quell’armonica architettura rimanda a un gioco numerico che dal tre rimbalza al cinque per concludersi solo provvisoriamente nel quindici, senza però mai risolversi. Come in un rebus lanciato verso l’ignoto, s’intuisce che molteplici sono i piani di lettura.
È questa la sede del Casinò della Serenissima. Da sempre, interconnessione nevralgica col Grande Oriente. Ambientazione ideale per lo storico Convegno dei cosiddetti Savi, i depositari dei segreti della Roulette, i pochi, sopravvissuti esperti di un mondo passato che tutt’oggi fa del gioco un ponte teso tra i numeri, la forza centripeta, il caso e la dea bendata.

È Carnevale. Il portone si apre, lasciando sfilare sul tappeto rosso che ne adorna lo scalone centrale strascichi di ampie gonne col cerchio, code inamidate di frack, cappellini adorni di piume multicolori, imponenti tricorni, nasi a becco, sguardi velati da merletti, ombrellini in pizzo, maschere a mezzaluna, divinità greche a braccetto con fate, magie variegate di una notte invernale che anticipa la mezza estate.
Solo una sala resta inaccessibile al pubblico. Un’altra festa vi si celebra , in via del tutto segreta, a porte chiuse. I lunghi tavoli verdi si susseguono in una successione ieratica, come sacri altari di quel moderno tempio pagano. È la Sala della Roulette.
«Les jeux sont faits – Last bets». Un rimbalzo deciso del polso chiude il sipario sulle prime congetture del tavolo.La mano del croupier si leva nell’aria creando una breve parentesi, una parabola che per un istante trattiene il tempo, per poi liberarlo a sorpresa. La pallina allora si tuffa a picco nei numeri di quella strana giostra, riemergendone poco dopo con un suono acuto che rimbomba nella sala: l’accordo vibrato dell’avorio sul legno.

I primi rimbalzi sulle scanalature dei numeri sembrano tanti trampolini a forma di stella, delle segrete vie di fuga dal vortice concentrico di un misterioso occhio, un buco nero invincibile. La sua forza centripeta dirime in pochi istanti quel breve attrito. La pallina asseconda il movimento a spirale creato da quel ventre a imbuto, e così prosegue nella discesa, in direzione opposta al senso di rotazione.
Nove, trentuno, quattordici, venti. Rosso e nero, pari e dispari, laterale o superiore, inferiore e centrale. Orfanelli e vicini allo zero, punto supremo di non ritorno. Le cifre si succedono come scagliate da un frullatore caotico, eppure una mano invisibile sembra tenere le redini di un equilibrato disordine. Caos calmo, quiete in ebollizione. Puntata piena su un solo numero. Un cavallo sull’otto e il nove. Diverse semplici sui due colori e altrettante sui numeri pari. Infine, un carré e una dozzina, rispettivamente sul quadrato tra l’undici e il quindici, e sull’ultimo settore.
«Rien ne va plus», esclama il croupier con una voce a cerniera.
Parabola discendente, decelerazione, sguardi imploranti la sorte, lenta inspirazione, teste assorte tra le mani, menti assertivi, pugni intermittenti, cornetti rossi e bianchi rosari, dita incrociate, gocce di sudore, talismani. Speranze che prendono il volo e preghiere, e poi giù a precipizio nei gironi delle mute imprecazioni.
È un attimo. Gli sguardi annebbiati dei Savi, tutti assorti all’unisono nelle rispettive congetture, intercettano un’ombra. Un mantello nero, una maschera, un graffio invisibile nell’aria, un’odore acre di polvere e terra. Lo stridore improvviso di una falce e lontane eco di urla.

«Sei solo un vile ladro di sogni!» sibila tagliente la voce, squarciando il silenzio che si è fatto denso sulla galleria immobile di quei ritratti.
L’uomo della puntata piena alza lo sguardo. Fatica a scrollarsi dalla retina il verde del tavolo che, come un filtro, continua ad appannarne gli occhi, ma un istante dopo la nuova immagine è messa a fuoco. Un’altra breve parentesi, poi tutto si confonde, inghiottito da un grigio uniforme. Su quel fermo immagine si riversa un fiume di sangue.
Era uscito il ventuno.
*****
«Un cammello, color arancione. Che porta sulla gobba un talismano… a forma di scorpione».
«Eccellente. E ora vediamo se riesci a decifrare quest’altra immagine».
Corrugò la fronte, per entrare nella concentrazione più profonda. Poi, come se fosse finalmente riuscito a trovare un angolo remoto dentro di sé, un placido sorriso gli rasserenò il volto. Qualche istante. Cinguettio di pettirossi. Inspirazioni calme e costanti, nelle narici solo il profumo intenso del muschio. Un leggero brivido sulla pelle. Per non parlare del formicolio nelle ossa che ormai cigolano, ma il pensiero è diretto altrove, concentrato a cogliere il battito più lieve del suo stesso cuore, che si rinnova ad ogni pulsazione. Senza scomporsi dalla sua posizione, aprì di colpo gli occhi.
«Un cobra dalla coda ritorta. Nove volte, su se stessa».
«Prodigioso. Lo avevo lasciato andare via, consegnandolo alle nuvole. Ma sei riuscito ad afferrare anche quell’immagine. Il tuo percorso è terminato. Non ho più nulla da insegnarti».
Lo guardò indugiando per un attimo. Un secondo sorriso gli illuminò il volto. Come un padre benevolo, soddisfatto dell’esito più brillante del suo lavoro.
Era sicuramente lui, il più dotato tra i suoi alunni. Un discepolo riservato e schivo, tanto fulgido nel talento quanto anonimo nell’aspetto fisico. Negli occhi, nemmeno la minima ambizione. Solo il perseguimento di un puro ideale, il mero “dharma” orientale, la missione della sua anima. Voleva inseguire il sapere, come fa la goccia che confluisce nel grande mare della consapevolezza, per raggiungere la simbiosi con la coscienza superiore che permea il tutto. O almeno, così lasciar credere.
Non che fosse ipocrita. Ma dalla malinconia del suo sguardo trapelava qualcosa, che gli aveva lasciato il segno. Una vecchia cicatrice, l’eco di una ferita, qualcosa che lo aveva spinto ad andare oltre la morsa del dolore, rifugiandosi nella stasi ovattata della meditazione.
La realtà era che non sembrava avere una precisa missione, qualcosa che desse un senso reale a quella ricerca assoluta che tanto assomigliava alla sete astratta di perfezione. La mentalica sembrava essere la sua unica passione assieme alle altre pratiche medianiche, ma non era come per gli altri che, mossi dall’ambizione per la fama, aspiravano a imparare sofisticati numeri da palcoscenico per gettare fumo negli occhi a un pubblico schiavo della superstizione.
Forse era per questo che l’anonima Musa, ispiratrice di maghi e sensitivi nota solamente agli iniziati, gli era sempre stata fedele, fissa al suo fianco come un angelo custode. Lo aiutava con una dedizione assoluta nell’insediarsi nella mente cosmica riemergendone con un’immagine nitida da cui poteva decriptare i messaggi che per gli altri erano lasciati in codice.
… Non come gli smarginati tentativi del suo amico che lo seguiva come un’ombra, un parassita tanto brillante nell’aspetto quanto torbido nelle intenzioni. I suoi, di esercizi, sortivano sempre esiti incerti, come se una spessa coltre di polvere ne appannasse l’aurea.
Si erano conosciuti a un seminario di meditazione, e da quel giorno non si erano più lasciati. Forse la reciproca solitudine aveva fatto da collante più dell’affinità elettiva, il resto lo aveva fatto il sentirsi entrambi parte di qualcosa di più grande, ma dai più rinnegato, e l’effetto di compensazione che provavano nello stare insieme. Un equilibrio perfetto, una specie di endiadi indissolubile, sembravano i cocci unici delle stesso vaso che per una serie inspiegabile di cause si erano ritrovati a combaciare: luce e ombra, l’unione degli opposti, come nel grande simbolo del Tao.
Egeo ed Ezio erano nati lo stesso giorno dello stesso anno, ma ai due poli opposti del Paese, Torino e Napoli.
A nessuno Egeo aveva mai parlato del suo dolore per un amore impossibile morto prima ancora di poter nascere. Una malattia improvvisa se l’era portata via, nel cuore più fulgido della giovinezza. Berenice, sua cugina.

L’aveva stretta a lungo, nella bara. Aveva vegliato accanto a lei tutta la notte, sfiorando il suo volto che pareva baciato dai raggi argentei della luna. Fino a quando ne udì ancora il respiro, la voce sottile appena sussurrata all’orecchio. Sembrava brezza mattutina, aulente e fresca di viola. Come Orfeo che era stato capace di varcare l’oltretomba, capì che doveva mettersi alla sua ricerca per poterla evocare ancora, incontrandola in una terra di mezzo, oltre la soglia del reale. Gli studi di parapsicologia lo avrebbero guidato verso la meta. Torino, la sua città nativa, lo avrebbe aiutato un quel percorso iniziatico.
Affinò il suo talento per la mentalica così da poterla richiamare, nel cuore della notte, ripescandola tra le ombre con la forza della sua anima che l’avrebbe risvegliata come con Euridice aveva fatto la musica.
Funzionò. La raggiunse più volte, e più volte ancora, tra le pieghe del sogno. Compiendo viaggi astrali, superando le correnti gravitazionali, attraversando lo spazio e bucando la luce, così che insieme a lei non potesse mai invecchiare.
Fino a quel fatidico giorno…
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IL LADRO DI SOGNI, FINALISTA AL PREMIO LETTERARIO “I GIOVANI HOLDEN” E AL “PREMIO NAZIONALE DI ARTI LETTERARIE METROPOLI DI TORINO”
