La Doppietta

Se non bello, senz’altro charmant, con quel fascino da uomo vissuto capace di far perdere la testa a molte donne. Di età non definita, anche se prevale l’aspetto classico da uomo sulla cinquantina. Media statura, fisico curato, capello brizzolato ad incorniciargli i tratti netti di un volto insolitamente irregolare, vestito sartoriale dal taglio impeccabile. Soprattutto, un pizzetto appuntito e due occhi vividi che gli donano uno sguardo di brace foriero d’inquietudine. Con passo da felino a suo agio nella notte, esce dall’elegante Hotel Royale di Monte-Carlo e scivola felpato sul lungo corridoio in marmo rivestito da un tappeto color porpora. Appena il voiturier gli consegna le chiavi aprendogli ossequioso la portiera della Testarossa, ingrana la marcia per dissolversi nel buio, lontano dagli strepiti di quella città sfavillante, in cerca di un rifugio sicuro dove liberare le sue pulsioni più estreme, i suoi desideri più inconfessati cui solo la sottana impudica della notte è capace di dar forma, come le labbra esperte della miglior puttana.


Si allontana in silenzio, rinunciando al ruggito roboante del motore che in altre circostanze avrebbe lasciato libero di esprimersi con il vigore selvaggio di un domatore. Solo una volta fuori, raggiunta la Moyenne Corniche, decide che è il momento di sgasare, che non far cantare quel gioiellino è peggio che fare sesso in sordina e nella solita posizione. Presa velocità, la macchina sfreccia come una fiamma sotto un cielo stellato senza luna. A illuminare la strada, solo la luce dei fari inframezzata dal riflesso dei lampioni nell’umidità, che nell’aria rarefatta dell’inverno creano strani aloni, psichedelici cerchi concentrici, allucinati più delle folli visioni di un pittore surrealista. Intorno, la natura silente si lascia attraversare, piegando i rami dei suoi alberi agli spostamenti d’aria: sono sferzate nette e decise, come il fruscio del vento tagliato dalla sua saetta di fuoco, eccitante preludio dei giochi proibiti che si accinge a mettere in scena, tanto dolorosi nella forma quanto edificanti nella sublimazione dell’anima.

Perché la tortura, da sempre lo sa, è la migliore modalità per far decantare lo spirito, affrancandolo dal corpo e conducendolo verso un nuovo orizzonte lungo il sentiero spinato dell’abdicazione.


La strada è un susseguirsi di curve, prima morbide, poi sempre più aspre, al pari della roccia granitica che la incornicia. Tornanti, salite, cambi di marcia, motore, altri tornanti, poi la discesa, gas a tutta potenza. Lo scenario ideale per le roulette russe che ai tempi d’oro organizzava da quelle parti, meglio se in compagnia di un certo tipo di ragazze. Allora sì che giocare a dadi con la morte aveva un senso, farsi accompagnare dritti all’inferno da quegli angeli ribelli, fedeli solo alla schiera del dio denaro, gli portava al sangue una specie di ruggito simile all’estasi più sublime.
Spinge l’acceleratore per correre a briglie sciolte dando gas, senza i limiti ingombranti della ragione, senza nessun freno inibitore, per guida solamente una bussola tarata sull’ago ipnotico della sua ossessione.


Poi, a un certo punto, la discesa. I tornanti degradano verso il mare con brusche curve a gomito, per poi arrestarsi dolcemente come il lento riflusso di un’onda. Rallenta, rilassandosi, assaporando la culla altalenante di quel nuovo ritmo impresso al motore. Fino a quando non si vede sormontare da un’enorme cupola di pietra, una galleria scavata nella montagna che gli ricorda le grotte della mitologia, le spelonche dove gli orchi consumavano i loro misfatti ai danni delle più belle ninfe.


É quello il segnale concordato: dopo la prima curva dovrebbe accostare.


Gli si avvicinano due tipe dalle curve più mozzafiato di quelle appena percorse. Non più di primo pelo, certo, ma in fondo a lui le ninfette anoressiche della nuova generazione hanno sempre detto poco, insipide alla pari di un qualunque aperitivo analcolico, un piatto vegano senza l’ombra di alcun gusto, privo di capo e coda. Niente corna tra i capelli, nessun tridente al culmine delle natiche smunte.


Quelle sì, invece, che sembravano due vere professioniste forgiate alla vecchia scuola. Quelle che non si permettevano di sollevare domande ed eseguivano nella totale discrezione per poi dileguarsi nel nulla con abilità funamboliche, ritornando nell’ombra da cui erano venute.


Una doppietta da paura, finalmente se la regalava. Dopo tante fatiche, superfluo ammettere che un premio simile gli spettava. Le fece montare dalla parte opposta, aprendo dall’alto la maestosa portiera, come l’ala rotante di un’aquila reale. Gli interni erano spaziosi per una due posti, aveva fatto accomodare i sedili in modo da asservirli ai suoi capricci, calibrati per le situazioni più estreme. Aveva scelto le due amiche proprio per la loro abilità da contorsioniste: rannicchiate e contorte come due bambole smontate, avrebbero procurato suprema soddisfazione alle sue fantasie da predatore.


La prima regola, una volta salite, era azionare il motore. Gli piaceva starsene al volante mentre loro si davano da fare, la macchina sfrecciante lo rassicurava col ritmo ipnotico del suo sottofondo musicale. Solo allora la sua mente sempre attiva riusciva a celarsi dietro un velo d’indifferenza, placando la spinta propulsiva del suo nascosto reattore. Il contrasto coi loro corpi in movimento, azionati al momento giusto, avrebbe fatto da detonatore delle sue parti più intime, e allora sarebbe esploso. Ma c’erano anche altri segreti.


Come il desiderio strisciante di trattarle come carne da macello, meri oggetti pronti all’uso e destinati a una veloce rottamazione. Per questo aveva fatto rinforzare solo metà della macchina, quella del posto di guida, lasciando all’altra lo scintillio apparente della lamiera. Sarebbe stato molto più divertente vedere dipinto sul loro volto lo sgomento, il terrore dell’impatto, la paura e il tormento.

Segue su “Avventure al volante”, Rudis Edizioni 2021