“Accadono cose che sono come domande. Passano giorni, a volte anni. Poi la vita risponde” (A.Baricco “Castelli di rabbia”)
Era un giorno d’autunno di qualche anno fa (metà ottobre 2014, se la memoria non mi trae in inganno). Assorta dall’onda dei miei pensieri camminavo distrattamente per le strade di Montecarlo, algide e immacolate come le loro vetrine, a cui il cuore dell’autunno stava regalando una venatura anomala. Quella calda nota rosseggiante mi stava riportando, seppur solo nella mia immaginazione, all’incendio purpureo delle betulle canadesi, ai boschi di novembre, ai paesaggi invisibili che d’un tratto sentii bussare in me.
C’è chi lo chiama “mal d’Africa”, io ho imparato a chiamarlo “mal di vita”, quell’adrenalina che ti brucia dentro come sul fare della primavera, nel bel mezzo di una serena giornata di sole, portandosi sulla risacca un atavico richiamo di giungla, un’inquietudine di viaggi da cui ti senti invadere, senza alcuna possibilità di fuga.


Allora diventa insopprimibile la voglia di allargare lo sguardo per scoprire nuovi orizzonti, persone paesaggi culture dal sapore semplice e vero di un libro. I fachiri dell’India, le alte muraglie della Cina, le mille torri della Cambogia, i colori della Thailandia, il profumo e le spezie della misteriosa Samarcanda. Evasione, sogno, proiezione. Le città invisibili si stavano facendo strada in me potenti, prendendo forma col loro silente richiamo.
D’un tratto qualcuno sembrò avermi letta nel pensiero, cogliendo quel desiderio taciuto per realizzarlo in simultanea. La coincidenza incredibile voleva che quelle stesse immagini poco prima macinate dalla mia mente si stessero di colpo materializzando proprio davanti ai miei occhi. Sui muri solitamente intonsi degli eleganti palazzi monegaschi.



Sui cartelloni delle strade, per le vie, ovunque: mille volti sconosciuti stavano raccontandomi la loro diversa storia, invitandomi ad andare a trovarli, a soli due passi da casa. Montecarlo era improvvisamente diventata l’ombelico del Mondo.
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Ci sono sguardi. E poi ci sono altri sguardi. Delle finestre affacciate sul mondo, dei punti interrogativi, degli specchi profondi come pozzi in cui perdersi, attingendo sempre nuove sensazioni, nuove idee, o semplicemente piccole illuminazioni. E allora capisci che la verità non è mai una sola, ma è molteplice e sfaccettata come tanti tasselli di un gigantesco puzzle di cui quegli sguardi sono parte essenziale.
Steve Mc Curry, il celebre fotografo del National Geographic da tutti conosciuto per i suoi ritratti straordinari, viene a comunicarci questo. I suoi ritratti sono attimi disarmanti di vita che scorre con tutta la sua forza nonostante la guerra, la fame e la povertà. Prepotentemente colorata, indifferente agli stereotipi comuni. Raccontandoci la sua storia.
La più famosa di tutte è quella di Sharbat Gula, la ragazza velata dagli occhi cerulei, da lupo della steppa.
Era un giorno qualunque nell’Occidente tecnologizzato di metà anni Ottanta. Non lo era invece per i popoli vittima della guerriglia che si stava combattendo ai margini del mondo, in un angolo nascosto tra le valli di Pakistan e Afghanistan. Alimentata dai superiori interessi delle due superpotenze mondiali, Usa e Urss.
A quel tempo Steve Mc Curry era un promettente reporter di guerra. Con l’incarico di ritrarre il conflitto col potere delle sue immagini, rubando alla realtà frammenti di verità che forse un giorno avrebbero scritto il mosaico della storia.
Quando all’improvviso, capì che la storia si giocava altrove. Sui visi nascosti delle sue genti, negli sguardi interrogativi, negli occhi sgomenti, nei gesti taciuti, negli abbracci trattenuti, nei sorrisi senza denti ma pieni di vita di chi gli stava davanti.
Gli apparse allora quella visione: non l’istantanea della rappresaglia che lui cercava, ma qualcosa di molto più semplice eppure mille volte più significativo. Era uno sguardo innocente, la profondità di due occhi di ragazza che lo stavano inchiodando a quella realtà di un vivere precario, fatta di dubbi, paure, incertezze. Si chiamava Sharbat Gula, aveva solo tredici anni e in quell’unico sguardo raccontava tutta la sua storia. Aveva paura, quella guerra assurda le aveva rubato gli ultimi anni di ingenuità, così breve per una giovane donna della sua cultura, da sempre preparata a divenire moglie, madre, nonna, altro da sé. Ma ora anche quel destino sembrava vacillare, perché l’identità stessa del suo clan si ritrovava nell’incertezza. Non avrebbe potuto esporsi a quelle diavolerie che certi individui venuti da molto lontano tenevano appese al collo. I fulmini che scagliavano erano così luminosi da riuscire a cogliere l’anima di una persona mettendola a nudo, violandola nell’intimità più profonda per esporla all’eterno. Ma per Steve tutto era possibile. Divenne uno di loro, condividendone i pasti, dormendo sotto lo stesso tetto e provando le stesse ansie, le stesse paure. E alla fine eccolo, il ritratto. Leggendario, come una nuova Monnalisa. Ancora più bella, nei suoi occhi di fuoco e ghiaccio così vera.
E poi c’erano gli altri.
Come il bambino tibetano che ti guardava enigmatico dall’alto della montagna avvolto nella sua tunica rosso porpora, la fermezza disarmante di un Piccolo Buddha che si affacciava alla vita è già l’aveva colta nelle sue verità.




C’era l’uomo in bicicletta che pedalava tra i castelli di fango e sabbia delle leggendaria Timbuktu, la remota città delle favole posta al nord del Mali, al confine con un mondo immaginario e forse solo sognato nelle Mille e una Notte.
C’erano le ragazze delle isole filippine, tutte truccate a festa per le nozze, ignare che la loro tradizionale cultura sarebbe un giorno diventata tendenza alla moda, un costosissimo “body painting” per le new generation occidentali.
E poi ancora, più a est nella Tailandia, ecco la ragazza dal collo di giraffa, intenta nella lettura come un’altera regina di una civiltà perduta. Le luci le scivolavano sul volto, incorniciandone il profilo come nei quadri del rinascimento fiammingo.
Sentivo la fatica fiera che mai cedeva al dolore, né si piegava indefessa, delle donne dell’India che si recavano al Gange ad attingere l’acqua, le grandi damigiane sulle teste, il loro ancheggiare ritmato e regolare come il flusso delle onde. Il loro incedere fluido, nonostante l’affanno, era la prova più tangibile che l’eleganza non conosce confine, e dimora in ogni sede, epoca e cultura. A dispetto della modernità dei media, delle passerelle e dei tacchi a spillo.
Capii allora che MC Curry aveva un grande dono. Quello narrato da Saint Exupery ne Il Piccolo Principe. Sapeva cogliere con un click l’essenza delle cose, perché forse proprio in quel click c’erano dentro gli occhi del cuore.
Rendendo più che mai vera quella frase che mi stava riecheggiando dentro: non si vede che col cuore, perché spesso l’essenziale è invisibile agli occhi.
Lasciai la mostra pervasa da una nuova certezza. Avevo visto le città invisibili, visitato angoli di mondo guardando per un attimo negli occhi uomini che mai in vita mia, diversamente, avrei incontrato. Questo era il vero miracolo.
Una brezza di vento mi accarezzò i capelli, e fui per un attimo rapita nella spirale della danza che quel soffio stava disegnando, a braccetto con una foglia rossa.