“Madrid è diventata un’arena difficile”, afferma il protagonista Salvador, una patina di malinconia e il peso della stanchezza gli velano il volto.
E si ha l’impressione che quell’arena, in realtà, sia la vita di tutti noi oggi, nelle nostre moderne città sempre meno ospitali, sempre meno tolleranti.
Un film tutto su i sentimenti e sui ricordi, (un percorso chiaramente gia’ tracciato dal precedente “Julieta”), dove le memorie dell’infanzia in Estremadura sono flash felliniani che si mischiano alla vita reale e ne diventano il principale appiglio per sopportare e andare avanti.
Immagini ieratiche e luminose di case bianche al sole e panni al vento che sembrano direttamente uscire dalle poesie di Garcia Lorca, con tutta la loro forza evocativa.
Non basta una vita a dimenticare. Quel caldo e avvolgente amore materno che attinge le sue radici narrative a piene mani in un italianissimo riso amaro (la recitazione di Penelope Cruz è degna delle nostre migliori Loren e Magnani), poi le numerose ferite della vita.
Non più le follie e gli eccessi smodati, quelli restano archiviati in un passato a latere.
Il dolore fisico e quello dell’anima spingono il protagonista sull’orlo di un difficile equilibrio, quello dei bilanci finali, quando si è costretti a scandire le giornate a seconda dei momenti di tregua da una continua, turbinosa sofferenza.
Difficile riemergerne, difficile scorgere la luce in fondo al tunnel. Quello spiraglio di bellezza assoluta a cui ci si aggrappa, quella forza dell’anima che da sola sa condurci, nonostante tutto, alla nostra infinita Gloria.