Riflessioni sull’ultimo romanzo di Elena Ferrante
Il mondo rassicurante, apparentemente dorato di Giovanna, una giovane adolescente cresciuta negli ambienti bene del Vomero, si ritrova di colpo a vacillare, bruscamente catapultato nella realtà popolare, dialettale e senza finzione, delle sue rinnegate radici.
Tutto ha inizio con la pubertà, quando sul volto della dolce bambina iniziano a comparire i tratti scomodi e inquietantemente spigolosi di una zia da lei a malapena conosciuta. Come di colpo avviene ne Il fu Mattia Pascal, o ne La metamorfosi di Kafka, l’idillio precedentemente ovattato dell’equilibrio di Giovanna si spezza, cedendo il posto all’assillo e al dubbio, che irrompono nella sua vita. I tratti del suo volto si ritrovano abusivamente “abitati” da quelli prepotenti della zia, da tutti descritta come volgare.
Alla ricerca della propria identità, Giovanna riallaccia così i rapporti con la zia Vittoria, venendosi a trovare faccia a faccia con un mondo considerato tabù per gli ambienti borghesi. Le perifrasi diplomatiche dei genitori professori verranno improvvisamente scalzate dagli improperi popolari, dal suono così vero e incisivo del linguaggio gergale della zia, tanto da costituire un punto di non ritorno che sgretolerà il finto castello di certezze dell’infanzia.
La disperata ricerca di calore umano, nella solitudine da cui Giovanna è avvolta, la porterà all’ossessione per l’arte di suscitare emozioni vere, in cui solo la zia Vittoria è inconsapevolmente maestra, quasi come una scoperta estetica. Nemmeno l’amore per Roberto, polo opposto di “bene” a cui Giovanna aspira, sarà la soluzione a questo conflitto. Perché, come spesso accade nei migliori libri, solo l’amore astratto è destinato a rimanere perfetto, e come tale incontaminato. Ben diversa la silenziosa discesa agli inferi che l’adolescente elegge per se stessa, gettando alle ortiche la propria purezza. Tutto il resto, è mera finzione: come la vita bugiarda degli adulti.
Nel romanzo si ritrovano gli stessi caratteri de L’amica geniale, dalla cui intensità il lettore viene rapito sin dalla prima pagina. L’occhio timido ma critico di Giovanna non è altro che l’alter ego di Lenu’, le ipocrisie del padre professore sono le stesse di un qualunque Sarratore, così come in lui si ritrovano le stesse astratte ideologie, formalmente nobili, sbandierate solo come mero abbellimento estetico, per vanità e aspirazione culturale.
In questo modo la “spacca Napoli” di Giovanna diviene una sottile cortina sociale che divide il cuore della sua stessa famiglia. Nel personaggio di Vittoria si ritrova la stessa tempra di Lila, quel modo crudo ma vivo di guardare il mondo, con lo stesso impietoso disincanto colmo di amore, che ha fame di conoscere.
Dipinta dalla famiglia come l’orco cattivo, il don Achille della situazione, appare invece bellissima nei suoi tratti a tutto tondo di donna autentica, eroina del mondo comune. Il suo essere visceralmente popolare, la sua impietosa autenticità di cuore è il riscatto più vero dello stesso termine «plebe», che la maestra di Elena in L’amica geniale aveva etichettato in modo sprezzante. Una plebe rozza nei modi, sboccata e dialettale, ma ricca di alfabeto dell’anima, sfacciatamente sincera, di quella crudele verità che non è altro che il coraggio della coerenza, e che si paga a caro prezzo ogni giorno sulla propria pelle. A dispetto invece di chi “lentamente muore” nell’artefatto castello delle proprie ipocrisie.
Zia Vittoria è un’impietosa Mamma Napoli, un personaggio alla Magnani che non si vergogna di mostrare le proprie ferite, di urlare al mondo la propria realtà e condizione di miseria. Il suo sguardo capace di mettere a nudo ogni scomoda verità, scrostando l’intonaco della finzione, mostra la contraddizione paradossale di un pensiero di sinistra che per il desiderio di appropriarsi dei modi elitari della cosiddetta “cultura alta” ha smarrito la propria identità, scollandosi dalla base per preferire vuote circonlocuzioni onanistiche.
Forse che le emozioni vive, i ricordi, il corpo, le nostre radici, la terra e il sangue versato sono l’unica cosa che realmente ci appartiene, non la proiezione ingannevole dei pensieri ripetuti a pappagallo da altri per vanità intellettuali?
In questa semplice verità si rinchiude forse il problema della contemporaneità: lo staccamento dal sé più vero, la sua abdicazione in nome dei tabù imposti dal mondo borghese post industriale e peggio ancora da quello attualmente dominante, tecnologico e virtuale.
La dimensione a tutto tondo di questa donna non ha nulla da invidiare alle eroine di Dostoevskji, dove alla forza suicida di un mal di vivere si sostituisce un viscerale attaccamento alla vita, nel bene e nel male. Le attuali emozioni sintetiche non potranno mai rubarci il cuore come ce lo hanno spezzato le lacrime immortali di donna Cesira (la Ciociara), allo stesso modo delle parole geniali di Lila o dello sguardo profondo di Vittoria.