L’Oktoberfest, nel 2020, si sarebbe dovuto svolgere tra il 19 settembre e il 4 ottobre, ma per via del Covid-19 è stato annullato.
Ho così deciso di raccontarvi una delle tante avventure di Sylvie Labella, proprio all’Oktoberfest dello scorso anno, come spin-off del mio romanzo “I Love Mammy in Montecarlo”.
Che fretta c’era, maledetta la Baviera?
Dicono “Paese che vai, usanze che trovi”, ma da queste parti, a Montecarlo, la frase suona alquanto azzardata: tutto è ammantato da toni sopra le righe, le feste tradizionali sono dedicate a celebrare i fasti principeschi, e al folklore locale non resta che accontentarsi delle briciole.
Che fare allora della tradizione popolare e del suo tocco di genuinità, quando tutto parrebbe cospirarle contro in nome dell’etichetta, di un distacco aristocratico e di un velo di superiorità?
La risposta, neanche a farlo apposta, è più facile a dirsi che a pensarsi e risiede proprio nel cosiddetto “fattore curva”: una sorta di resilienza riadattata al posto che insegna ad aggirare l’ostacolo per evitare di sbatterci contro. Ed ecco allora trovata la soluzione: nei posti che contano, portafoglio alla mano, anche le tradizioni popolari possono acquisirsi per importazione. Tant’è che qui nessun detto parrebbe più azzeccato di quello che recita: “Paese che vai, gemellaggio che trovi”.
Quando ho scoperto questo arcano, nessuno poteva dirsi più felice di me. In preda ad autentica euforia, calcolando le probabilità di una joint venture con le possibili corone europee, il mio intuito geopolitico ha fatto subito pendere l’ago a favore di un sogno di sempre: la Spagna. Ecco immaginarmi a ballare le Sevillanas in piazza del Casinò, col mio migliore vestito di flamenco, senza nemmeno dover scomodare la fata turchina: gemellaggio, questa era la parola magica. Ma, come al solito, sarebbe bastato un pizzico di pragmatismo a farmi capire che mi stavo sbagliando. Avrei prima dovuto fare i conti con la ragion di stato: argomenti vitali quali l’etimologia, le assonanze fonetiche nonché le innegabili – e ormai sedimentate – affinità elettive premevano a favore di altre priorità.
Fateci dunque caso: se a Montecarlo è innegabile che l’abito faccia Monaco, anche il giusto nome farà il gemellaggio ideale per aggiudicarsi la città del cuore.
Perciò stava già scritto dalla notte dei tempi: era solo un mero fatto di destino. Il connubio tra la nobilissima perla del mediterraneo e la gioiosa capitale degli antichi Lander tedeschi s’aveva da fare. Monaco-Montecarlo e Monaco di Baviera dovevano diventare come il pane col burro. O meglio ancora, come la birra con lo Champagne. Un’unione inviolabilmente siglata all’insegna delle bollicine: con il botto!
Ecco perciò che a Montecarlo la ricorrenza dell’Oktoberfest viene da sempre celebrata alla stregua di una delle più importanti feste religiose, ancorché declinata in salsa profana di oro, incenso e birra. Messi da parte crocifissi, sermoni e preghiere, le protagoniste indiscusse della nostra festa pagana sono le danze e la musica a tutta birra, ovviamente, “Sa va sans dire”!

Col risultato che, proprio nei giorni di svolta tra la fine di settembre e le prime ventate di ottobre, la nostra ridente perla del Mediterraneo si direbbe aver subito un’improvvisa metamorfosi. Da elegante cittadina sul mare, tutta champagne caviale e Chanel, a ridente borgo di montagna, tutto birra, würstel e … vestiti bavaresi.
E proprio questo è il punto dolente! Non essendo l’equazione con Chanel affatto peregrina né ingenuamente sottovalutabile, presentarsi alle feste locali con un vestito improvvisato rischierà di rivelarsi una scelta sbagliata. O meglio: del tutto inadeguata agli standard del posto.
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Ancora una volta dunque, qui a Monaco l’abito fa il monaco. Mai come in occasione dell’Oktoberfest diventa un distintivo unico, uno stemma che permette di riconoscere da lontano il profondo senso di patriottismo che lega i sudditi al Principato.
Insomma, per dirla con le parole del mio amico Igor “È ovvio che non puoi ballare il tango, se non hai il tanga”. Già alle idi di settembre sarei dunque dovuta correre ai ripari e conformarmi come un camaleonte ad usi e costumi locali, per far sì che tutto andasse per il meglio.
Ottobre si avvicinava inesorabilmente, e io necessitavo di un autentico vestito bavarese. Quello che avrebbe fatto di me una monegasca d’eccezione, aggiudicandomi la palma d’oro tra le Madame blasonate: anch’io mi sarei fatta confezionare su misura, niente di meno che dalla Baviera, un autentico abito da Oktoberfest. La decisione era presa, il dado era tratto.
Il problema però è che spesso il destino beffardo deve mettere il suo zampino anche nelle più importanti delle ricorrenze, trasformandosi nel peggiore dei guastafeste.
Determinata nel mio intento, mi ero organizzata con dovizia riempendomi la casa con i migliori cataloghi di moda, tra cui primeggiava Vogue Baviera e ogni sorta di corrispettivo teutonico di Gloria, Grazia e Gioia (il 3G assai più utile del 5): stesso biondo platino delle modelle, solo i nomi meno musicali. Ma non avevo fatto i conti con diverse variabili.
La prima: il mio temperamento gitano e l’innata repulsione per qualsiasi imposizione. La lunghezza standard delle gonne tradizionali, rigidamente imposta dall’etichetta, era dunque un dogma da dover sfatare al più presto, iniziando a starmi troppo stretto, anzi a dire la verità un po’ troppo lungo.
Nei pur elegantissimi panni di una Valchiria tedesca, sembravo un ibrido tra una bomboniera e un’abatjour senza lampada. Non si poteva fare. Necessitavo di un’aggiustatina: un certo tocco personale che avrebbe smussato gli spigoli, ridando equilibrio all’insieme e restituendo giustizia alle mie grazie come un sagace ministro, pardon sarto, di grazia e giustizia. Così mi è arrivata l’idea geniale. Poteva essere l’occasione giusta per mettere a frutto le mie naturali doti grafiche, improvvisandomi stilista.
Mi sarebbe bastato trovare il giusto cinese a Ventimiglia e anch’io, modelli alla mano, avrei avuto il mio vestito d’eccezione, confezionato ad hoc con stoffe di pregio. Volete mettere il rinomato talento del made in Italy in ambito di moda, a confronto dell’opera di quattro crucchi portati più alla meccanica pesante che all’haute couture? Il mio piano era studiato in ogni minimo dettaglio.
Non mi ero dunque solo improvvisata stilista di me stessa, ma con innato ottimismo e intraprendenza da vendere ne avevo altresì approfittato per dare libero sfogo a tutta la mia creatività repressa. Ne era uscito un intero campionario di circa una ventina di modelli unici, in stile bavarese rivisitato, più gustosi dell’omonimo dolce.
C’era il modello rock, fatto con inserti di pelle e motivi scozzesi, quello ispirato al Burlesque con fiocchi rosa e strass, il french can can con sottogonna a volant neri e rossi, e infine il modello Siviglia: non poteva mancare la tradizionale fantasia rossa a pois bianchi per chi, come me, avesse voluto osare.
Ero così entusiasta che stavo già pensando al marchio da registrare col relativo logo, di cui mi sarei incaricata in prima persona: dopo tutto rimanevo pur sempre un avvocato d’affari. Un esclusivo “Bavar-esque” d’eccezione: eccovi sdoganata la versione sexy di quegli austeri gonnelloni a quadri, senza però rinunciare al grembiulino incorporato. Da far impallidire Heidi in persona! In men che non si dica, mi sarei conquistata i mercati di entrambi i Monaco e l’orgoglio italiano avrebbe di nuovo primeggiato su tutte quelle teste (o gonne) coronate.
Armata dell’entusiasmo del caso, non mi restava allora che saltare, bozzetti alla mano, sul primo treno per Ventimiglia alla ricerca del giusto sarto cui affidare il delicatissimo incarico di trasformare i miei sogni in realtà.

Salire a Montecarlo e scendere a Ventimiglia procura sensazioni degne dei migliori film di Spielberg. Si percepisce esattamente la stessa distanza che passa tra la Terra e Marte. Tanto patinata ed elegante è la prima, quanto zingara e caotica la seconda. Una vera terra di frontiera: non per niente ha dato i natali, ormai quattro secoli orsono, al leggendario Conte di Roccabruna e Ventimiglia, alias il Corsaro Nero di Salgari.
E qui infatti si nasconde l’insidia.
Se giocando a fare il pirata sbarchi su Ventimiglia, ma in mente hai ancora il software da monegasca, non potrai durare molto. Questa terra di confine tra il Limbo italiano e il Paradiso francese, è costellata da innumerevoli creature dalle origini più disparate che, proprio come nelle cantiche dantesche, sembrano starsene appostate per l’eternità ad attendere miglior sorte.
La stazione di Ventimiglia è una Casablanca del cinema d’epoca, una Ellis Island fuori dal tempo dove le umane genti si rifugiano in cerca di asilo, eleggendone il leggendario piazzale a loro avamposto.
A parte questo avventuroso impatto, solo gli animi più intrepidi scopriranno che la città nasconde un cuore nobile, una rocca storica e soprattutto una miriade di boutique eleganti a prezzi (per restare in tema di pirati) più che abbordabili.
Già al primo impatto ero sicuramente entusiasta: la zingara che era in me, da troppo tempo assopita nel sonnacchioso ménage monegasco, ha iniziato a svegliarsi esultando. Finalmente si respirava aria d’Italia! Presa la palla al balzo (confidando che il tacco non mi tradisse), mi sono subito messa in azione alla ricerca di un sarto cinese in quella specie di entusiasmante far West.
Scartati i negozi chic, di cui avevo già piene le tasche, optai subito per il sottobosco di quelli confinanti con la stazione.
Dove però si fossero cacciati i cinesi in quel miscuglio di etnie, tra cui pareva prevalessero gli afghani, vallo a indovinare.

Con molta delusione e disappunto, dopo aver girato a vuoto per una buona mezz’ora, scoprii che la fetta di mercato riservata ai cinesi non era, come nella mia Milano da bere, quella dei ristoranti orientali e dei negozi di chincaglieria, bensì quella del beauty low cost. Escluse le spa e a parte una certa tipologia di massaggi “lomantici”, non propriamente in linea con le mie esigenze, si trattava, purtroppo, dei soliti parrucchieri sottocosto.
Desiderosa di salvare il salvabile, ho momentaneamente accantonato il progetto dell’intero campionario limitandomi al modello base, quello a me destinato, di cui avrei inizialmente realizzato un’unica quanto inimitabile produzione.
La logica strategica mi suggeriva di acquistare prima le stoffe, per poi concentrarmi sul reperimento del sarto giusto.
Per il primo punto, nessun problema. Ben sapendo di che stoffa sono fatta, nello scoprire che i relativi negozi erano pressoché introvabili, anziché perdere le stoffe (pardon, staffe) ho subito ripiegato sul riciclaggio (di abiti, eh, non di denaro: precisazione opportuna per i lettori monegaschi). Mi è bastato aguzzare occhio e ingegno per adocchiare all’istante un delizioso negozietto afghano che sembrava fare al caso mio: modelli vintage anni’80, dove imperversavano gonne scozzesi e pantaloni di velluto proprio alla moda inglese che avrei potuto spacciare, tanto ne era stupefacente (la somiglianza, intendo) per autentiche stoffe bavaresi.
La lotta con le concorrenti è stata dura. Due signore, in particolare, hanno destato i miei sospetti: benché camuffate dietro fantasmagorici impermeabili e giganteschi occhiali da sole, le avevo fiutate monegasche come me in incognito. Convincerle che quelle orribili camicie a quadri taglia XXXL non facessero certo al loro caso (io invece ci avrei ricavato sufficiente stoffa per la mia gonna) si è rivelato più difficile di quanto pensassi, ma alla fine l’ho spuntata.
Non restava quindi che passare al piano B: darci il famoso taglio. Al cucito avrei pure provveduto in prima persona, ma forse con le opportune spiegazioni gli stessi cinesi da me reperiti sarebbero arrivati a fare l’impossibile, ne ero certa. Dategli un qualsiasi prodotto, e loro troveranno il modo di rifarlo. Questo significava essere dei veri professionisti del settore ed io, che di entusiasmo ne avevo da vendere, mi sarei senz’altro trasformata in una pioniera del campo.
Alta moda low cost.
E dunque, bozzetti alla mano, eccomi alle prese con l’interlocutore prescelto. Dalla sicurezza con cui impugnava le forbici per ricavare l’unico evergreen dei tagli da uomo ho subito capito che avevo fatto Bingo. Lo avrei trasformato nell’Edward mani di forbice del ponente, nel Coppola dell’oltre frontiera, nel Jean Claude Biguine in terra ligure che avrebbe spopolato in men (anzi, women) che non si dica. In cambio di questa metamorfosi che gli avrebbe fruttato oro, eccomi a spiegargli le basi di una proficua joint venture tra il mio consolidato talento stilistico e le sue nascenti doti sartoriali, per il momento ancora potenziali. Se tutto andava come previsto, il mio modello zero avrebbe fatto scintille, tutti ne avrebbero parlato negli ambienti che contano e la sua modesta bottega si sarebbe ben presto trasformata in una rinomata sartoria di standing internazionale.
Anche di fronte a tali amène prospettive, pareva però non volerne sapere. Troppo affezionato al suo taglio unico per aprire la mente, e soprattutto le forbici, a nuovi orizzonti.
Con mia somma delusione, mi sono vista costretta a ridimensionare la stima da sempre nutrita per l’estremo oriente, la cultura zen, lo Yin e lo Yang e la loro secolare medicina. La sua irremovibile ottusità era forse una conferma che avessi ecceduto nell’idealizzarli sopravvalutandone la lungimiranza?
In realtà, come in occidente non si muove foglia che Dio non voglia, così gli orientali di fruscio prediligono quello del vil denaro e, in fatto di arte sartoriale, non c’è low cost che tenga: il mio nuovo amico ha preteso una cifra tutt’altro che amichevole o irrisoria. Così la sua esosità ha mandato tutto all’aria.
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Morale della non favola: mi sarebbe toccato rientrare a Montecarlo a mani vuote, senza nemmeno il mio modello zero.
Non mi restava che battere in ritirata: un breve shopping tour su Amazon poteva essere la giusta via di fuga.
Già. Se non fosse che, al contrario delle mie aspettative, molte delle elegantissime Madame monegasche avevano già saccheggiato la maggior parte dei modelli papabili.

Così l’unico rimasto a disposizione era, per ironia della sorte, proprio un vestito bavarese in versione sexy che sembrava giustappunto uscito dai miei bozzetti, solo ancor più succinto.
Su di me, devo proprio essere sincera, era un incanto. Treccine incluse.
Cosa che ad alcune Madame locali non è affatto andata giù. Passare in secondo piano alla festa più bella del Principato per colpa di un’italiana vestita in maniera poco ortodossa e per di più con un abito all’apparenza per nulla dispendioso, doveva loro apparire come un’imperdonabile eresia.
Avevo pochissime vie d’uscita. Questa volta l’avevo fatta grossa: senza neanche rendermene conto, mi ero attirata l’ira della Sacra Inquisizione locale.
Potevo farmene una ragione? Non saprei. Nell’incertezza, ho preferito farmene una regione (la Baviera, appunto) ballando come non mai, trangugiando la schiumante bevanda e infischiandomene alla faccia loro. A tutta birra, insomma, memore della bocca di rosa di De André: “Si sa che la gente dà buoni consigli/sentendosi come Gesù nel tempio/si sa che la gente dà buoni consigli/se non può più dare il cattivo esempio”.
